Alice è stanca. Ha girato tutta la città ed è caduta in tutte le trappole del linguaggio.
Alice è felice.
Sa che non è possibile ripulire tutte le proprie parole, scarnificarle, rimetterle alla prova, verificarne la tenuta. Sa che non si può smontare d’un colpo tutta la nostra lingua naturale. Ha un elenco delle parole che vorrebbe sperimentare:
luogo
non luogo
luogo comune
corpo
soglia
straniero
straniamento
spaesamento
perdita
dono
specchio
riflessione
leggerezza
eco
voce
cornice
soggetto
oggetto
cosa
punto di vista
Alice si è rotta le scatole di parlare d’arte, pensa che sia un sottoprodotto della storia delle idee e che chi ne parla fa ideologia e che sia buona solo per i musei che non si sa per cosa sono buoni tanto che non si sa cosa farne e si lascia che siano infestati da bidelle onaniste furiose afone e frustrate però le piacciono i bar dei musei perché ai bar dei musei si parla bene d’amore.
Alice ha voglia di fare, di attraversare soglie, ha fame di spazio e non importa che tipo di spazio. Le piace lo spazio multiplo e assoluto dei ricordi dove tutto è a fuoco, dove il tempo non sono i giorni ma le stagioni e le stagioni sono totali.
Alice ama la sua città.
E lotta contro tutto ciò che ha più fame di spazio di lei: i centri commerciali con gli immensi parcheggi desolanti tutto intorno, e gli stadi e gli aeroporti. I palazzi a specchio che oltretutto riflettono altri palazzi a specchio, gli edifici che si piantano nell’orizzonte e non cambiano mai il loro punto di vista. Alice amava il viadotto di Corso Francia perché quando lo percorreva verso la Flaminia , in leggero falsopiano a salire, il numero dei giri del motore della macchina calava e, sulla destra, il panorama del Villaggio Olimpico appariva come una visione pastorale ritmata in lento contrappunto dalle statue enormi.
Quando Alice tornava in autobus da scuola si divertiva con i compagni a interpretare in maniera scurrile i gesti delle statue. Ora lo spazio è occupato dall’immobile massa dell’Auditorium che non si muove. L’Auditorium è l’eterno presente, è morto. A tornare indietro, verso i Parioli, il viadotto offre ancora oggi il dislivello a scendere che facilita la velocità della macchina e una visione più ritmata, dai timbri acuti che anticipavano la visione dai finestrini della metropolitana. Su questo tratto di strada Alice in motorino aveva avuto la prima visione e la prima coscienza di sé.
Alice vuole raccontare lo spazio.
E vorrebbe che lo stesso spazio fosse raccontato anche da altri, con ogni mezzo, per arrivare a uno spazio comune dei raccontatori che sia la somma delle sensazioni, delle impressioni delle aspettative dei desideri dei ricordi dei sogni di tutti. Alice chiama questo lo spazio di Orfeo.
Alice è eversiva.
Come un analista smonta in continuazione il giocattolo e ogni volta che lo rimonta non assomiglia più alla volta precedente. Alice ama le immagini. Perché tutte le immagini sono figlie di Nostalgia. La sua grotta iniziatica sono state le immagini riflesse nelle pozzanghere dopo la pioggia. Aveva imparato presto ad escludere dalla pozzanghera tutte le riflessioni delle figure materialmente prodotte da un’attività umana e a tenere solo le nuvole.
Alice ama l’archeologia industriale.
Ama le mura sbocconcellate come biscotti lasciati da un bambino sazio, ama i tetti sfondati da cui è fuoriuscito tutto il vapore possibile. Dioniso è uscito di qui per sempre, il suo corteo ha lasciato il luogo. Kavafis ce lo ha raccontato.
Alice ama sovrapporre le immagini del film dei fratelli Lumiere ai resti delle fabbriche. Uscita emorragica di vapore, di energia, di operai, di sperma. Lampi di luce.
Alice sa che gli Dei sono ancora in città. Ma sono mobili, sfuggenti. Bisogna scoprire quali soglie sorveglia Giano.

versatinrete
proluogo
  primo luogo: Festa


 


C’è una città
dove il marmo
si fa nuvola

dove tace
la voce
cedevole
del Genio

perché
le cose sono
senza nome
dove è consentito
solo
lo sguardo leggero incatenato
all’ora mutevole
della luce
c’è una città
dell’infinito stupore
dice Alice