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Il metodo delle tre sequenze parallele

Tra Futurismo e Bauhaus: le radici del metodo

Moholy-Nagy: Pittura, Fotografia, Film

Saul Bass e il cinema

Usi e significati del termine storyboard

Campi d'applicazione

Le 5 dislocazioni dello sguardo

Posizioni e movimenti della MdP

Abbreviazioni e termini convenzionali

Luce e illuminazione

Il nuovo contesto tecnologico

Notazioni approssimative o programmazione

Argomentare le scelte

Sigle istituzionali

Graphic Design e Storyboarding

Quando il progetto fa la differenza

La definizione dell'incarico

Gli stilemi dominanti

Errori tipici dell'inesperto

L'autonomia del progetto

Deformazioni sonore e tessiture acustiche

Decalogo operativo

 

Il metodo delle tre sequenze parallele

Per capire come si organizzano le informazioni in uno storyboard, basta tornare con la memoria al primo giorno di scuola. Chi non ha vissuto l'esperienza del bambino che viene "iniziato" al sapere dagli adulti? Forse il ricordo di questa esperienza si ricollega visivamente allo spazio dell'aula: sulle pareti troveremo un abbecedario, o comunque una serie di elementari illustrazioni, disegni dai vivaci colori. Vedremo anche una lavagna nera e dei segni tracciati con il gessetto: ancora disegni, lettere, numeri, parole. O magari solo stanghette e segni molto semplici da ricopiare sul quaderno, tanto per cominciare a fare pratica con gli elementi minimali dell'alfabeto.

Quando sulla lavagna i segni appaiono in sequenze ordinate di forme riconoscibili (lettere che diventano parole che a loro volta si uniscono in frasi compiute, mentre le semplici linee tracciate col gesso danno vita a figure disegnate), ecco che può cominciare a delinearsi lo svolgimento di una storia. Possiamo allora immaginare un intero racconto dove tutti gli eventi narrati sono visti come attraverso una finestra, ovvero uno sguardo delimitato e diviso in una sequela di piccoli riquadri.

Ecco dunque una successione di scenette e didascalie giustapposte come in un fumetto, disposte ordinatamente entro la cornice di legno della nostra lavagna, quasi a volerne moltiplicare al suo interno in dimensioni ridotte la forma rettangolare. Il risultato finale è un grande quadro che contiene un certo numero di piccoli quadri. Abbiamo trovato una prima immagine, basata su cose che già conosciamo bene (l'immagine della lavagna è qui anche una metafora di quella "materia grigia" in cui s'inscrivono le tracce mnestiche di ogni nostra esplorazione conoscitiva).

Ma cerchiamo per un attimo di andare oltre i limiti di questa visione infantile fatta di lavagne, quaderni a quadretti, righine orizzontali ripiene di lettere. Visione tratta da un passato più o meno remoto. Esistono molti altri esempi possibili, taluni ancora più lontani nel tempo: possiamo evocare persino la tavola dipinta che i cantastorie usavano quale scenario portatile per le loro esibizioni, veri e propri spettacoli multimediali d'altri tempi. A questo punto, siamo comunque in grado di ricostruire lo storyboard mnemonico del nostro primo giorno di scuola.

Un esercizio che tutti possono fare, tale da non richiedere particolari doti di fantasia. Scopriamo subito che i nostri ricordi sono molto frammentari e talora alquanto confusi. Ricordiamo forse solo alcune inquadrature salienti, non l'intera sequenza causale degli avvenimenti, così come si è svolta esattamente nella realtà. Di quella realtà abbiamo conservato solo una mappa necessariamente approssimativa, una percezione distorta anche in quanto si può supporre alterata a causa di successive elaborazioni dei dati mnemonici ad opera della nostra stessa immaginazione. In ogni caso, ricordiamo solo qualche curioso particolare: forse lo sguardo severo del maestro o le scarpe rosse della maestra.

Forse il fastidioso rumore del gessetto sulla lavagna o il suono liberatorio della campanella. Forse l'odore di cuoio dell'astuccio o quello del panino con la mortadella (i più giovani ricorderanno invece l'aroma dolciastro delle merendine confezionate). Ma a partire da questi modesti frammenti di esperienze sensoriali custoditi nella memoria, possiamo tentare di ricostruire l'intera situazione aiutandoci con quel che nel frattempo abbiamo imparato.

Possiamo formulare ipotesi ragionevoli su ciò che accadde quel giorno. Possiamo inoltre riempire gli spazi vuoti della memoria con la nostra fantasia. Memoria e immaginazione sono infatti gli ingredienti base di ogni mappa mentale, e dunque anche di uno storyboard, in quanto espressione grafica di un percorso ideativo. Prendiamo ora l'album da disegno e dividiamo ogni singola tavola in tre colonne. Nella prima colonna metteremo in fila delle cornici rettangolari (del tutto simili, anche nelle proporzioni tra la base e l'altezza, al bordo che delimita la nostra lavagna della memoria).

Nella seconda colonna metteremo delle righe orizzontali come quelle di un quaderno, dove annoteremo rumori, suoni più o meno graditi, voci che pronunciano qualche spaesata parola che forse risuona ancora nella nostra testa, frammenti di frasi ricordate a distanza di molti anni. Nella terza colonna tracceremo invece dei segni convenzionali. Delle note che rinviano a movimenti e sensazioni evocate dal ricordo di ogni scena saliente.

Possiamo includere persino gli odori più strani o i sapori della merenda, trasposti magari in una descrizione a base di aggettivi più o meno pittoreschi e improbabili, ma questo non è indispensabile. Certo, odori e sapori sono facili da ricordare (la memoria olfattiva è una delle più persistenti, benché spesso "richiamata" solo in presenza di una percezione attuale) tuttavia, molto difficili da riprodurre, e non solo a parole, ma con tutte le tecniche di rappresentazione di cui disponiamo, comprese le più recenti forme di realtà virtuale: non a caso, tra gli spot pubblicitari più fantasiosi troviamo proprio quelli che reclamizzano un profumo. O, per meglio dire, l'idea stessa del fascino di un profumo, nonché l'immagine della raffinata sensibilità che occorre per apprezzarne l'essenza.

Per vendere (e far vedere) l'idea di un profumo, e dunque rendere anche visivamente appetibile un prodotto-merce pur destinato principalmente  a stimolare l'olfatto, gli ideatori del messaggio promozionale ricorrono in genere ad una metodologia del progetto basata sulla formula dello storyboard.

Due sono infatti i metodi principali per vendere un'idea: uno è quello del dialogo diretto, della classica trattativa "a viso aperto" con il potenziale cliente, aggiustando il tiro della comunicazione in funzione delle risposte dell'interlocutore, delle sue convinzioni, emozioni ed esigenze particolari. Fino ad ottenere, quando la cosa funziona, una qualche presunta convergenza d'interessi verso un obiettivo comune. Tale interazione simbolica a più livelli (sguardi, parole, strette di mano) può allora concludersi, appunto, con il gesto rituale della vendita.

L'altro modo per vendere un'idea è forse meno flessibile, meno interattivo, ma in compenso più adatto a raggiungere una pluralità di potenziali destinatari: si basa infatti sulla traduzione dell'idea in una sequenza accuratamente programmata di stimoli sensoriali, di concrete soluzioni espositive che possono offrire un supporto efficace e durevole alla strategia di vendita anche in assenza del venditore o del mittente del messaggio.

Come si può vedere in questo schema operativo (simile a quello adottato nelle interfacce grafiche di molti programmi per l'animazione e il montaggio video), la scrittura progettuale di un'opera audiovisiva si compone mediante una sequenza di segni analogici e di notazioni convenzionali impostata su tre livelli paralleli, tre fasce principali, orientate verso una medesima direzione evolutiva, ovvero in base ad una linea del tempo che può essere orizzontale (se il modello di riferimento è la pagina scritta) o verticale (se il richiamo è, invece, allo scorrimento della pellicola cinematografica).

Anche in quei prodotti multimediali che non seguono percorsi unidirezionali e irreversibili ma si basano su connessioni plurime tra insiemi di dati eterogenei, si presume in genere un luogo di partenza (una home page) in cui è possibile tornare in qualunque momento, nonché un centro della linea del tempo dal quale si può procedere in avanti, verso il futuro, ovvero andare alla pagina successiva (next), oppure tornare alle pagine precedenti (back). Il modello, come si può constatare, è ancora rappresentato dalla struttura del libro, anche se il nuovo libro ipertestuale non ha più, per così dire, una "rilegatura" fissa o rigidamente consequenziale, non è vincolato fisicamente alla staticità delle immagini e alla silenziosità del testo scritto, può inoltre svilupparsi in profondità mediante simulazioni prospettiche che rendono facilmente praticabile anche una visualizzazione in senso sagittale della linea del tempo.

In altri termini, ci si può muovere con lo sguardo in una galleria virtuale, nella terza dimensione, lungo l'asse z del campo visivo, anziché lungo quella direzione esclusivamente riferibile all'asse x in cui da secoli, nella nostra cultura, si sviluppa il percorso della lettura di un testo nello spazio bidimensionale della pagina.

Tra Futurismo e Bauhaus: le radici del metodo

«Nel film futurista entreranno come mezzi di espressione gli elementi più svariati: dal brano di vita reale alla chiazza di colore, dalla linea alle parole in libertà, musica di colori, linee e forme, accozzo di oggetti e realtà caotizzata. Offriremo nuove ispirazioni alle ricerche dei pittori i quali tendono a sforzare i limiti del quadro. Metteremo in moto le parole in libertà che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l'arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte tra la parola e l'oggetto reale».

(Dal Manifesto della cinematografia futurista, 1916)

«Il film Dinamica della grande città non vuole né insegnare né moralizzare, né raccontare; esso vuole influire solo visualmente. Gli elementi della visione qui non si combinano necessariamente secondo un filo logico; tuttavia nelle loro relazioni fotografiche-visive si integrano in un tutto vivo e coerente di avvenimenti spazio-temporali e inseriscono in modo attivo lo spettatore nella dinamica della grande città».

(L. Moholy-Nagy, 1922)

Sul piano della riflessione storica e della consapevolezza critica si può affermare che gli eventi decisivi che hanno caratterizzato la cultura artistica del '900, e di conseguenza le istanze inaugurali del Design (in tutte le loro declinazioni produttive e comunicative), sono quelli che hanno interessato particolarmente il periodo di tempo compreso tra l'inizio del secolo e gli anni '40. In questo lasso di tempo è avvenuta una grande rivoluzione nei linguaggi espressivi che può essere facilmente ascritta ai movimenti, alle proposte, ai programmi delle cosiddette avanguardie storiche.

Non a caso, per collocare storicamente i periodi successivi, si ricorre in genere all'uso di termini che suggeriscono una discendenza più o meno diretta da quei fenomeni (Neo avanguardie, Post avanguardia, Transavanguardia ecc.). Le avanguardie nascono all'interno della cultura europea, ma nel periodo in questione avviene anche un clamoroso spostamento, come ha sottolineato Giulio Carlo Argan, dell' asse culturale egemone con il trasferimento da Parigi a New York del centro della cultura artistica mondiale. Inghilterra, Francia, Germania e Italia hanno infatti visto nascere dei movimenti che non hanno superato indenni il secondo conflitto mondiale.

La crisi della cultura europea è stata anche interpretata come una cesura epocale in grado persino di porre termine alla storia dell'arte. Tuttavia, le avanguardie hanno in qualche modo "previsto" anche il loro "superamento", o meglio il trapasso dell'arte in una nuova condizione caratterizzata dalla cultura di massa e dall'esteticità diffusa e normalizzata. Oggi le istanze delle avanguardie appaiono introiettate dalla cultura contemporanea, i linguaggi introdotti all'inizio del secolo appaiono in qualche modo assimilati anche a livello di massa, ma questo non ci autorizza a dare per scontata una piena conoscenza di tale realtà storica. Vediamo allora di ripercorrere qualche tappa che possa risultare pertinente con il nostro tema di fondo.

«Ora questa transizione di sonorità ai tessuti (niente di meglio della Musica assomiglia a una garza!) è, unicamente, l'incantesimo che opera Loïe Fuller, per istinto, con l'esagerazione, con ripiegamenti, di gonna o d'ala, istituendo un luogo».

(Stéphane Mallarmé)

Cfr. Barbara Elia (a cura di), Fechner Mallarmé Valéry Otto. Filosofia della danza, Il Melangolo, Genova 1992.

Nel 1914 la coreografa americana Loïe Fuller presentò, nel teatro dello Chatelet di Parigi, le sue "Sinfonie Sinestetiche", una messa in scena dove luci, colori, musica e movimenti si fondevano in una sorta di danza caleidoscopica che in qualche modo inaugurava una nuova dimensione espressiva polisensoriale. La partecipazione come spettatori a quell'evento fu una esperienza di forte suggestione estetica che influenzò profondamente la sensibilità futurista di due artisti italiani, Giacomo Balla ed Enrico Prampolini, la cui vocazione non poteva certo non essere già ricettiva verso quella dimensione sinestetica che veniva così esemplarmente evocata in uno spettacolo di danza.

Cfr. Giovanni Lista, Lo spettacolo futurista, Cantini Editore, Firenze 1988.

E proprio all'interno del movimento futurista, che caratterizzava l'avanguardia artistica italiana di quegli anni, venne compiutamente affermata , come sappiamo, in tutti gli aspetti dell'arte ma anche nello stile di vita, una poetica della luce e del movimento, della simultaneità e dell'acutezza sensoriale. Una ideologia bellicosa, trasgressiva, ma in realtà pronta ad accogliere l'elettrizzata dinamica di quella stessa vita urbana moderna emergente che esaltava gli artifici della tecnica, la velocità della macchina, e ricusava con il suo inarrestabile attivismo la declinazione riflessiva e museale dell'arte.

Un' attitudine per la sperimentazione di nuovi materiali e modalità costruttive nella grafica, nel cinema, nella fotografia, oltre che nelle tradizionali arti plastiche, che costituì la fondamentale premessa storica per tutte le successive esplorazioni dei nuovi linguaggi attuate dalle avanguardie artistiche. In quell'euforico clima culturale da inizio secolo, la feconda versatilità di un disinibito rapporto, al di fuori di ogni blindatura disciplinare accademica, tra ricerca pura e applicazioni artistiche "prosaiche", risultava già evidente, per esempio, nell'opera di un artista come Fortunato Depero, il quale poteva produrre con lo stesso spirito e la medesima impronta futurista sia quadri o arazzi che progetti per padiglioni espositivi o manifesti pubblicitari.

Cfr. Anna D'Elia, L'universo futurista. Una mappa: dal quadro alla cravatta. Edizioni Dedalo, Bari 1988.

Nasceva in quegli anni in Europa la moderna attitudine metodologica del design, attraverso un intenzionale e altamente propositivo avvicinamento dell'arte all' industria che avveniva in primo luogo nei termini di una ridefinizione teorica della funzione sociale dell'arte e attraverso il conseguente impegno formativo verso una rinnovata didattica delle discipline progettuali.

Rispetto al nostro tentativo di ricostruire le origini di un certo modo di concepire quella particolare forma di scrittura creativa che chiamiamo storyboarding, ovvero quelle notazioni grafiche intercodice, impaginate come partiture o tavole sinottiche, miranti a prefigurare le "sequenze parallele" di un percorso multisensoriale ben calibrato, capace di suscitare visioni ed emozioni, possiamo qui indicare un sicuro paradigma: gli appunti di Moholy-Nagy per il copione del film sperimentale Dinamica della grande città, stesi dall'autore tra il 1921 e il 1922, nella forma di una impaginazione graficamente pregnante che può certo essere indicata come un esempio molto originale di storyboard (sebbene all'epoca non esistesse un termine specifico per definire questo tipo di sceneggiatura per immagini).

Risale poi al 1925 la prima pubblicazione, nei Quaderni del Bauhaus, di uno Schizzo di partitura per una eccentrica meccanica. Sintesi di forma, movimento, suono, luce (colore) e odore. Un progetto teatrale sempre di Moholy-Nagy, anch'esso presentato, come si evince dal titolo, nella forma pressoché inedita di una partitura (inedita non per la musica, ovviamente, ma rispetto ad una complessa integrazione estetica tra elementi visivi, sonori e cinetici).

Le notazioni si articolano su quattro colonne verticali: "La prima e seconda colonna della partitura indicano, secondo una continuità verticale dall'alto verso il basso, gli eventi scenici di forma e movimento. la terza colonna precisa gli effetti di luce nella loro sequenza: lo spessore delle rispettive fasce indica la durata. Nero = oscurità. Le piccole strisce verticali segnate all'interno delle fasce larghe sono illuminazioni parziali, contemporanee, della scena. La quarta colonna è prevista per la musica: qui le indicazioni sono puramente intenzionali. Le strisce verticali colorate indicano suoni di sirena che ululano in modi diversi e che accompagnano gran parte degli eventi scenici. Sulla partitura la corrispondenza orizzontale significa contemporaneità".

(Cfr. Oskar Schlemmer, Laszlo Moholy-Nagy, Farkas Molnár, Il Teatro del Bauhaus, Giulio Einaudi editore,Torino 1975, pp.40-41).

Moholy-Nagy: Pittura, Fotografia, Film

Abbiamo appena detto che all'artista ungherese Laszlo Moholy-Nagy (1895-1946), si deve forse il primo significativo esempio di storyboard. Una sceneggiatura impostata in termini graficamente pregnanti per un film sperimentale. Con l'intero corso della sua opera artistica e teorica, compresa l'attività didattica svolta presso il Bauhaus, l'autore compose una sua originale visione dei linguaggi dell'arte a partire dalle esperienze del neoplasticismo e del costruttivismo russo, in particolare da El Lisitskij, inaugurando una fondamentale ricerca sui valori espressivi della luce e del movimento.

Ricerca condotta con una pluralità di tecniche e di materiali non convenzionali, dalla quale ancor oggi possiamo trarre spunti e suggestioni per affrontare i percorsi delle nuove forme di arte cinetica. Egli fu dunque un pittore, ma anche uno scenografo e un progettista di strutture tridimensionali. Esplorò, come Man Ray, gli elementi essenziali del procedimento fotografico. Incrociò anche le tecniche più innovative del cinema e della grafica in termini che forse solo ora, in un contesto segnato dalla tecnologia degli ipermedia, possono apparire in tutta la loro portata di svolta epocale nel campo dell'arte. Egli, infatti, può essere considerato il pioniere di un'arte cinetica e multimediale che trova oggi nel computer uno strumento forse ideale per realizzarne il "programma" su larga scala.

Riferimenti:
Laszlo Moholy-Nagy, Pittura Fotografia Film, Einaudi, Torino 1987.
Laszlo Moholy-Nagy, Vision in Motion, Paul Theobald: Chicago, 1947.

«Il fotogramma, cioè l'immagine luminosa ottenuta senza la macchina fotografica, è il segreto della fotografia. In esso si rivela la caratteristica unica del procedimento fotografico che permette di fissare immagini di luce ed ombra su una superficie sensibile senza l'aiuto di alcun apparecchio. Il fotogramma apre nuove prospettive su un linguaggio visivo finora completamente sconosciuto e governato da leggi proprie».

(Moholy-Nagy, 1936)

«Se messa in scena significa l'organizzazione dell'azione sul palcoscenico, potremo d'ora innanzi chiamare messa in inquadratura l'organizzazione dell'azione nell'inquadratura».

(Sergej Michajlovic Ejzenstejn, 1947)

Cfr. Sergej M. Ejzenstejn, Lezioni di regia, Einaudi, Torino 1964.

Saul Bass e il cinema

Il percorso espressivo che dalla pittura impressionista all'arte cinetica vedeva impegnati gli artisti ad indagare il senso cinestetico, la percezione corporea delle forme in movimento, non poteva non chiamare in causa, nel '900, il parallelo sviluppo del cinema, ovvero di quella tecnica che, per definizione, produce "quadri in movimento" e dunque offre agli artisti la possibilità di esplorare un linguaggio in cui il movimento non viene più solo raffigurato nella dimensione statica della pittura, della stampa fotografica o della pagina, ma viene effettivamente riprodotto nel suo sviluppo temporale.

Dai manifesti di Toulouse-Lautrec e di Jules Chéret, riferiti proprio a quel teatro di varietà che tanto fu celebrato in seguito dalla poetica futurista, ricaviamo un primo esempio di fecondo rapporto tra le ricerche visive degli artisti, le applicazioni della grafica e il mondo dello spettacolo. Un secondo esempio significativo riguarda appunto la storia del cinema. Così, se da un lato il cinema ha conosciuto il laboratorio artigianale delle ricerche d'avanguardia (dal Futurismo all' Underground americano degli anni '70), dall'altro lato, l'aspetto preponderante è stato quello legato ai grandi apparati produttivi e alla diffusione di uno spettacolo di massa basato per lo più sul tradizionale impianto narrativo che deriva da una matrice letteraria.

Anche in virtù di tale ricorso prevalente a questo tipo di narrazione, le tecniche di sceneggiatura cinematografica si sono spesso limitate al testo scritto, e l'organizzazione del set si è in genere basata su una chiara ripartizione dei compiti: una netta distinzione dei ruoli professionali tipica, appunto, del lavoro industriale. L'uso dello storyboard, pur sempre previsto nelle produzioni particolarmente complesse e costose, è stato tuttavia in larga misura concepito solo come un modo per ottimizzare le riprese riducendo i costi, dunque soprattutto come un espediente pragmatico, quasi mai come un'autentica necessità espressiva degli autori.

Nel tradizionale cinema d'animazione o in quello in cui si fa ampio uso degli effetti speciali, lo storyboard è stato dunque visto come una mera necessità tecnica, dato che sceneggiatori, scenografi, direttori della fotografia, operatori, attori, musicisti, fonici e montatori si basano in genere sulla loro esperienza di specialisti, più che sull'organicità di un progetto dettagliato, per dare il loro personale contributo alla costruzione di un film, per lo più interpretando delle semplici indicazioni verbali del regista, ovvero di colui che si assume l'intera responsabilità delle scelte, del coordinamento, della supervisione generale.

Da questo punto di vista l'organizzazione del lavoro cinematografico si colloca a metà strada tra quella paleoindustriale della fabbrica moderna, impostata sulla catena di montaggio, e una corale perizia da "maestri artigiani" simile a quella del cantiere medievale. In questi casi, l'unità estetica dell'opera non è dunque il frutto di una scrittura preliminare, di un progetto rigorosamente calibrato da un autore, ma è piuttosto l'esito eventuale di un work in progress, di una certa disponibilità di risorse umane ed economiche: un racconto ben concepito, la determinazione e l' autorevolezza di un regista, la professionalità e l'affiatamento tra tutti i partecipanti alla produzione dell'opera, il ricorso ad adeguati supporti tecnici ed organizzativi.

In qualche misura, anche l'attenta e globale pianificazione strategica di un odierno spot pubblicitario, non sfugge a questa declinazione puramente pragmatica dello storyboard. Nel cinema, dunque, l'aspetto della comunicazione visiva entra nelle rispettive sfere di competenza di diversi ruoli. Le esigenze dell'industria cinematografica prevedono che un film sia presentato e confezionato anche in termini grafici (manifesti, titoli, didascalie ecc.). Di qui l'apporto del graphic designer, che talora coinvolge anche le tecniche d'animazione e gli effetti speciali.

Il paradigma storico di questa funzione del graphic design rispetto alla produzione cinematografica è certamente rappresentato dall'intera carriera professionale di Saul Bass (New York 1920-1996), sia con i suoi interventi grafici diretti (manifesti, sigle e titoli), sia con l'art direction o il contributo della sua qualificata consulenza in oltre 40 film famosi (tra cui Vertigo, Psycho, Spartacus, West Side Story, Pretty Woman). Emblematici di come la sintesi grafica possa coniugarsi con il linguaggio cinematografico, restano i sui primi e più noti lavori, dal manifesto e dalla sequenza dei titoli animati per il film The man with the Golden Arm (1955), alle sigle di Anatomy of a Murder (1959) e di Exodus (1960).

Usi e significati del termine storyboard

Nel presente testo vengono prese in considerazione tutte le accezioni previste dal termine storyboard (escluse quelle legate al nome contingente assunto da questo o quel programma informatico). La parola storyboard non indica qui alcun prodotto commerciale, alcun marchio esistente, ma solo il modo più diffuso di definire un certo tipo di progetto, organizzato in maniera tale da garantire alcuni vantaggi pratici che dipendono volta per volta dal contesto operativo di riferimento.

Ad esempio, uno storyboard in formato A4 realizzato con pochi tratti a matita o pennarello su carta comune, senza l'uso del colore, può essere comodo e rapido da realizzare, può tra l'altro essere facilmente inviato via fax, ma potrebbe risultare poco adatto per una presentazione dell'idea ad un determinato cliente. Il vantaggio principale consiste nel poter programmare in anticipo con una buona approssimazione tutti gli aspetti di una produzione anche molto complessa e costosa, con un notevole risparmio di tempo e denaro.

Ciò rende gli autori in grado di gestire in proprio la fase del progetto senza dover dipendere dalla costante disponibilità di un complesso apparato produttivo e senza rischiare equivoci nell'esporre ad altri le idee da realizzare. Nell'accezione più usuale, il termine indica una serie di disegni e istruzioni che descrivono una storia. Ad esempio, una proposta per uno spot pubblicitario, per una presentazione audiovisiva in un meeting aziendale o in un convegno scientifico, per una sigla televisiva, per un film pieno di effetti speciali, per le sequenze multiple incluse in un prodotto ipermediale, per un cartone animato o un'animazione al computer, per un videoclip musicale.

Lo storyboard viene usato nella fase ideativa del progetto e della pre-produzione per delineare una intera sequenza cinematografica o videografica, con matita, pastelli, pennarelli, collage o altre tecniche miste, inclusa l'adozione di supporti fotografici, xerografici e digitali. Nel progetto troviamo in genere puntuali indicazioni relative all'ambientazione, alle caratteristiche delle scene, agli angoli di ripresa, alle durate, alle luci, ai movimenti della camera, delle fonti luminose, degli attori (oggetti compresi), nonché dei fenomeni atmosferici.

Ma anche i dialoghi tra i personaggi, la musica e gli effetti sonori, le voci e gli eventi fuoricampo, le modalità transizionali necessarie per passare da una scena all'altra. Si tratta essenzialmente di un modo insieme sintetico e analitico per descrivere lo sviluppo temporale di un'azione che implica aspetti visivi e auditivi sincronizzati. Sintetico, perché leggibile nel suo insieme, in modo simultaneo, come una tavola sinottica che può essere "inquadrata" in un solo colpo d'occhio.

Analitico, in quanto forma sequenziale di scrittura, poiché scompone un flusso diacronico in una serie discreta di quadri salienti, di momenti chiave, d'immagini pur sempre statiche e bidimensionali, consentendo così un controllo puntiforme, "digitale", dell'intero svolgimento su tre linee parallele (visiva, auditiva, cinestetica) di un medesimo percorso espressivo e sensoriale.

Lo storyboard è, insomma, il modo che risulta più efficace, nel contesto in cui si opera, per descrivere un film o un video in base alle esatte indicazione dell'autore. Può essere preparato a partire da un breve testo scritto (Script) che riassume lo svolgimento della storia. Spesso lo scritto è composto su due colonne: in una si descrivono le immagini, nell'altra si definiscono gli eventuali dialoghi e le altre componenti della colonna sonora. Ma a volte lo scritto viene realizzato in seguito alla messa a punto degli elementi grafici e delle azioni visualizzate nello storyboard.

Altre volte, soprattutto in produzioni molto impegnative e prestigiose, il testo scritto che accompagna la presentazione di uno storyboard al cliente ha un carattere prevalentemente argomentativo, ovvero include una serie di riflessioni teoriche e di motivazioni strategiche in merito alle scelte operate. Dei rapidi schizzi a mano libera, per lo più accompagnati da qualche annotazione, sono spesso sufficienti per fissare un'idea su carta e per un personale storyboard di lavoro. Ma per presentare al committente un progetto si può rendere necessaria una ben più elaborata forma espositiva, anche mediante il ricorso ad un illustratore professionista specializzato in questa particolare tecnica di visualizzazione.

Quest'ultimo, infatti, è il metodo più usato in pubblicità, dove lo storyboard rapidamente abbozzato dall'art director viene, per così dire, messo in bella copia da uno specialista. Da alcuni anni si è affermato l'uso di presentare talora un cosiddetto storyboard animato (animatic), una sorta di via di mezzo tra il tradizionale disegno, magari realizzato al computer, e una vera e propria animazione. Sebbene questo metodo possa consentire di farsi un'idea più immediata delle durate, dei ritmi, del rapporto tra le immagini e la colonna sonora, esso può rivelarsi fuorviante, o di minore carica evocativa, proprio per quanto riguarda le dinamiche del linguaggio visivo e la capacità di orientare l'immaginazione del cliente su quello che sarà l'effettivo risultato finale, l'aspetto sensoriale che il prodotto avrà davvero una volta realizzato.

Le cose dette finora rendono evidente che non esiste una sola accezione del termine storyboard, ma che questo contempla una pluralità di significati. Le distinzioni linguistiche che si usano nel gergo delle diverse realtà professionali possono generare nel lettore una certa confusione. Ad esempio, per il regista di uno spot pubblicitario lo storyboard dovrà prevedere una precisa descrizione tecnica delle ambientazioni e delle inquadrature da realizzare nella fase di ripresa (Shooting-board).

Per l'operatore alla Rostrum camera (camera collegata ad un braccio meccanico semovente controllato da un computer) che dovrà riprendere con precisione dei modellini, lo storyboard indicherà con estrema accuratezza le posizioni, le traiettorie e le durate delle riprese, la dislocazioni, le caratteristiche delle fonti d'illuminazione (luce diffusa, fibre ottiche ecc.) e gli eventuali spostamenti delle stesse, la velocità di rotazione della piattaforma girevole che sorregge il modello, nonché tutti quegli ulteriori elementi che occorre conoscere per programmare i movimenti automatici della macchina da presa.

Nella realizzazione di un film d'animazione dove per ogni inquadratura ci sono magari numerosi elementi che si muovono in simultanea, per tenere il conto di tutte le parti in azione occorre che lo storyboard assuma il dettaglio di un foglio macchina, ovvero di una tabella di marcia ben più simile all'opera di un contabile che a quella di un creativo. Negli anni '30 la tecnica dello storyboarding nasce proprio dall'esigenza di pianificare la produzione dei primi cartoni animati. Ecco allora una prima accezione a cui è d'obbligo far cenno nel proporre il seguente elenco riassuntivo in 5 punti:

1) Lo storyboard come tabellone di riferimento per un intero gruppo di lavoro. Si può immaginare una grande stanza dove un certo numero di disegnatori sono intenti a realizzare cartoni animati (o qualsiasi altra cosa che richieda uno stretto coordinamento tra i membri di un team operativo): in una parete avremo il quadro completo del lavoro da sviluppare insieme, costantemente aggiornato. Questo quadro sarà composto da disegni e annotazioni tecniche disposte secondo un ordine sequenziale che non lascia spazio ad equivoci. In questo caso lo storyboard è inteso non solo come prefigurazione di un esito da raggiungere in modo corale, non solo come strumento ideativo di pre-produzione, ma anche come una sorta di guida topografica o criterio comune di riferimento nel momento della produzione vera e propria.

2) In una seconda accezione possiamo intendere lo storyboard come il piano d'azione di un autore, un modo per fissare le idee, un progetto che può rimanere implicito o appena accennato sotto forma di annotazioni personali. Un modo per non affrontare a mani vuote la preparazione di un'opera multimediale o di un qualunque prodotto audiovisivo. Una mappa delle idee. Una visualizzazione del pensiero.

3) In una terza accezione, possiamo includerlo nelle strategie per convincere qualcuno della bontà di una nostra proposta. Un modo per vendere un'idea facendola vedere nella sua veste più persuasiva. La forma più efficace per visualizzare un progetto anche agli occhi di chi non è del mestiere. Come per costruire un edificio non è necessario realizzarne una visione prospettica, ma bastano planimetrie, prospetti e sezioni, così per realizzare, poniamo, una sigla televisiva, non è di per sé necessario uno storyboard accattivante. Tuttavia, l'esigenza di rendere comprensibile il progetto anche al non esperto, implica la positiva intenzione di approssimarsi il più possibile al risultato finale, ad una buona prefigurazione di quella plasticità del linguaggio, di quella concretezza sensoriale che sarà compiutamente "espressa" solo dall'oggetto realizzato.

4) Esistono accezioni più generali del termine storyboard che nascono da una estensione del concetto a diverse metodologie tese alla soluzione dei più svariati problemi (Problem Solving) mediante un uso creativo, mirato e consapevole, del pensiero analogico e delle facoltà immaginative. In questo testo accenneremo ad alcune di queste procedure che includono l'approccio morfologico, le tecniche metamorfiche, l'immaginazione attiva o fantasia guidata, i modelli neurolingustici, l'uso della visualizzazione sequenziale a scopi terapeutici, mnemotecnici, nonché ipnotico-seduttivi.

5) Segnaliamo, infine, un'altra declinazione del metodo dello storyboarding che riguarda il campo più tipico dell'arte, ovvero delle forme espressive autonome. Una sequenza fotografica accompagnata da annotazioni può, ad esempio, essere proposta come lavoro di Narrative art da un artista concettuale (è il caso, tanto per citarne uno, delle foto di Duane Michals). In questo ed altri casi la "forma storyboard" diventa il genere delle sequenze autoreferenziali, o di quelle modalità espositiva che coniugano il verbale e il visivo, la scrittura e l'immagine. Qualcosa, dunque, che perde il carattere transitivo del progetto e si propone espressamente come opera compiuta.

(Cfr. Alfredo De Santis, Storyboard, grafica d'animazione: segni, sequenze, storie, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1989).

Campi d'applicazione

In quali situazioni può essere applicato tale metodo? Con quali limitazioni? In tutte le situazioni in cui occorre inventare una storia, programmare delle sequenze sinestetiche, ovvero che prevedono delle sincronie dinamiche o delle ben dosate concatenazioni di stimoli e risposte multisensoriali da inserire in un processo comunicativo per renderlo più efficace. Può trattarsi del modo in cui un individuo o un'azienda effettuano una ricognizione della propria storia passata e costruiscono l'immagine anticipata del proprio sviluppo futuro perseguito.

La tecnica dello storyboarding è innanzi tutto un sistema di narrazione per immagini. Sappiamo, ad esempio, che la solidità e l' espansione di un'impresa dipendono anche dalla capacità di continuare a "raccontarsi", di posizionarsi nello spazio del mercato rispetto ad altri soggetti concorrenti, di proporre nel tempo più ipotesi d' interpretazione immaginativa della presunta identità in cui essa si riconosce.

Dunque si ha sempre bisogno, in quanto soggetti, di puntuali revisioni e aggiornamenti della propria storia e della propria missione (ovvero di collocare se stessi in un orizzonte che tende fatalmente alla sfera del mitico e dell'immaginifico), di riflettere in forme originali sul significato della propria identità o vocazione essenziale. In termini più generali, anche le cosiddette svolte della Storia (questa volta con la S maiuscola) presumono un parallelo mutamento delle narrazioni che strutturano l'orizzonte della significazione sociale: quando cambia qualcosa di decisivo in un contesto umano, in genere cambia anche l'autodescrizione (il modo di raccontarsi la propria "favola") di quel medesimo contesto.

Altrimenti, l'eventuale cambiamento non sarebbe neppure percepito come tale. Ciò che chiamiamo storia è definibile come quella unità di senso che fornisce uno schema esplicativo e un modello estetico per l'esperienza vissuta. Nella realtà pre-istorica non esistono punti di partenza né punti di arrivo, così come non esiste una linea evolutiva di sviluppo. Le storie, invece, presentano sempre un inizio e una fine delle vicende narrate, impongono partenze e approdi conclusivi al flusso dell'esperienza. Oggi le grandi narrazioni ideologiche sembrano non trovare né un credito filosofico né una vasta udienza sociale. Ma si ha pur sempre bisogno di storie, magari ridotte ai 30 secondi di uno spot pubblicitario.

La tecnica dello storyboarding, intesa qui in un'accezione molto ampia, nasce quindi dall'incontro produttivo tra la logica della narrazione e quella della visualizzazione, tra la cultura del progetto e le strategie della messa in scena spettacolare, nonché tra l'arte della costruzione di uno spazio simbolico e la capacità di percorrere ogni volta tale spazio seguendo itinerari sensoriali e cognitivi rinnovati. Per far questo occorre appunto una tecnica che è possibile apprendere. Tecnica d'ideazione i cui limiti applicativi sono solo quelli della nostra fantasia.

Le 5 dislocazioni dello sguardo

1) Oggettiva convenzionale

La MdP è collocata nella posizione di un ipotetico testimone che osservi dall'esterno una scena entro cui interagiscono i protagonisti della vicenda (si tratta qui, in qualche modo, di un osservatore supposto umano e verosimile).

2) Oggettiva irreale

La MdP è collocata in una posizione inconsueta (rispetto ai parametri spaziali e cinetici di un normale operatore antropomorfo) grazie all'uso di una particolare tecnologia di ripresa o di una simulazione al computer.

3) Interpellazione

Un personaggio guarda in macchina (come a voler incrociare lo sguardo dello spettatore per "interpellarlo")

4) Soggettiva convenzionale

Gli occhi dello spettatore s'identificano con il punto di vista di un personaggio.

5) Soggettiva straniante

Il punto di vista con cui lo spettatore è indotto ad identificarsi risulta in una strana posizione rispetto alle comuni angolazioni percettive: potrebbe, ad esempio, trattarsi dello sguardo mobile di una mosca simulato al computer...

Posizioni e movimenti della MdP

(Macchina da Presa)

La camera può essere paragonata ad un occhio che rappresenta il punto di vista dell'osservatore modello. Nel contesto delle tecniche d'animazione o di una simulazione al computer la sfera oculare perde i suoi connotati fisiologici, i suoi contingenti limiti anatomici, e può pertanto essere immaginata come un punto immateriale posto al centro di una sfera ipotetica: tale punto individua l'origine di una semiretta che rappresenta la linea di mira (l'asse ottico della camera), la sfera rappresenta invece la possibilità di ruotare e di spostarsi in tutte le direzioni, di orientare liberamente l'asse ottico e il piano focale senza alcun vincolo fisico che non sia voluto, ovvero previsto esplicitamente dal progetto.

Anche l'angolo di campo che determina i limiti della zona inquadrata è, almeno in teoria, libero dai vincoli ottici e meccanici degli obiettivi fotografici, anche se le caratteristiche di questi obiettivi (lunghezze focali, grandangoli, ottiche medie, teleobiettivi, focali variabili ecc.) rimangono come criterio di riferimento per controllare gli esiti espressivi anche nel campo della "ripresa virtuale").

Gli aspetti tecnici della ripresa hanno anche un loro specifico significato, legato all'esperienza quotidiana di ciascuno di noi. Qualche esempio:

Camera target (il punto di mira che determina anche il centro geometrico dell'inquadratura, anche se non sempre questo coincide realmente con il nostro centro d'interesse).

Carrello (lo scorrimento lineare del punto di vista, come quando si va sui pattini).

Dolly (la possibilità di soprelevare progressivamente il punto d'osservazione, ovvero il mondo visto dal vetro dell'ascensore).

Zoom (la progressiva focalizzazione dell'attenzione dal generale al particolare e viceversa).

Steadycam (il punto di vista mobile di una persona che cammina nella scena).

Skycam (ovvero la visione aerea o a "volo d'uccello" di un ambiente).

Panoramica orizzontale (come guardarsi attorno: la possibilità di ruotare la testa allarga ovviamente il campo della visione).

Panoramica verticale (come passare dallo sguardo basso al naso per aria e viceversa).

Piano sequenza (la visione mobile e ininterrotta di una lunga sequenza di azioni).

Camera verticale (ovvero unita ad un banco di ripresa per l'acquisizione di foto, disegni, animazioni tradizionali ecc.: come quando, per consultare un atlante, lo si appoggia su un tavolo).

Controcampo (l'inquadratura opposta e complementare a quella che la precede: come seguire due persone che giocano a carte mettendosi alternativamente alle spalle dell'una e dell'altra).

Soggettiva (la posizione della camera coincide con il punto di vista di un personaggio, il che è come mettersi nei panni di qualcuno).

Abbreviazioni e termini convenzionali

Inquadrature, campi, piani di ripresa:

CLL: Campo Lunghissimo (visione complessiva di uno scenario)

CL: Campo Lungo (idem, ma con più rilievo alle presenze umane)

CM: Campo Medio (figure ambientate riprese per intero)

CT: Campo Totale (nel gergo TV: visione completa del soggetto)

CC: Campo Composito (compresenza di PP e scena in secondo piano)

FI: Figura Intera (ripresa TV dalla testa ai piedi della figura)

PA: Piano Americano (visione dalle ginocchia in su della figura)

MPP: Mezzo Primo Piano (tipica ripresa di un "busto TV")

PP: Primo Piano (Ripresa del volto e parte del busto)

PPP: Primissimo Piano (inquadratura del volto)

PdA: Piano d'Ascolto (ad es: il volto del giornalista che ascolta l'intervistato)

D: Dettaglio (particolare del volto, del corpo o di un oggetto)

DD: Dettaglione (dettaglio amplificato fino all'ambiguità visiva)

FC: Fuori Campo (voci o tracce di eventi esterni all'inquadratura)

PS: Piano Sequenza (ripresa senza tagli che segue intere azioni)

Terminologia anglosassone:

ELS: Estreme Long Shot (campo lunghissimo)

LS: Long Shot (campo lungo)

MLS: Medium Long Shot (campo medio lungo)

ES: Estabilishing Shot (totale di riferimento per stabilire il luogo)

GS: Group Shot (ripresa di un gruppo di persone)

MS: Medium Shot (campo medio)

KS: Knee Shot (piano americano, ripresa dalle ginocchia in su)

FS: Full Shot (inquadratura piena, figura intera)

BS: Bust Shot busto, mezzo primo piano)

CU: Close Up (primo piano)

Favouring Shot: PP che sottolinea un soggetto in una scena

VCU: Very Close Up (primissimo piano)

ECU: Extreme Close Up (dettaglio)

Blow-Up: Ingrandimento di un particolare

Following-Shot: Sequenza in cui la MdP "insegue" l'azione

SS: Surraund Shot (ripresa con MdP che ruota al centro dell'azione)

CS: Cameo Shot (soggetto illuminato su fondo scuro)

TS: Tree Shot ("Tripla" o inquadratura TV di tre soggetti)

Luce e illuminazione

Elenco indicativo dei metodi d'illuminazione:

Luce naturale o solare (s'intende diurna e in esterni)

Luce ambiente (indica una ripresa che non prevede il ricorso a fonti luminose ausiliarie)

Luce diffusa (illuminazione uniforme e priva di ombre nette)

Luce radente o di taglio (evidenzia le texture delle superfici)

Luce frontale (ad esempio quella di un flash incorporato nella fotocamera)

Luce di schiarita (che riduce il contrasto generato da una luce laterale)

Luce di effetto (luce posteriore che disegna il contorno di una figura e la "stacca" dal fondo)

Controluce (consente di evidenziare la silhouette scura del soggetto su fondo chiaro)

Luci laterali (conferiscono un particolare rilievo plastico ai soggetti)

Luce irreale (fonti artificiali strane, inconsuete per intensità, direzione, colore)

Luce dal basso (aspetto teatrale, drammatico)

Luce spot (mette in evidenza solo una parte della scena)

Punto luminoso aggiunto (lampada in campo, riflesso a stella, bagliore ecc.)

Luce propria radiante (ad esempio, quella di un' insegna luminosa)

Luce riflessa (ovvero modulata e diffusa da superfici più o meno riflettenti)

Luce per trasparenza (ossia filtrata da materiali più o meno trasparenti)

Il nuovo contesto tecnologico

«Se il cinema meccanico è l'arte della transizione, il cinema elettronico è l'arte della trasformazione».

(Gene Youngblood, 1989)

Vediamo ora quali modifiche ha introdotto la tecnologia più recente nelle tradizionali tecniche di ripresa, animazione, post-produzione ecc. E cercheremo poi di rispondere ad una ulteriore domanda: le nostre mappe conoscitive in che modo sono state indotte ad aggiornarsi a fronte di tali innovazioni? Verso la metà degli anni '70 le tecniche informatiche applicate al disegno progettuale e alla generazione d'immagini animate escono dalla fase sperimentale e cominciano a diffondersi nel mondo della produzione vera e propria.

Fino a quel momento parlare di immagini elettroniche significava soprattutto far riferimento alla televisione e alla registrazione videomagnetica, dunque a sistemi riproduttivi di tipo analogico. Per il montaggio delle immagini il termine di riferimento, anche in TV, era ancora rappresentato dal montaggio cinematografico (l'immagine televisiva veniva infatti trasferita su pellicola, per l'editing finale si usavano taglierine e incollaggi nonché le stesse moviole meccaniche adottate nel cinema).

Gli effetti speciali nel cinema e nella produzione televisiva si basavano tutti su trucchi ottico-meccanici. I sistemi in uso facevano capo soprattutto alle lavorazioni in truka (stampatrice ottica in grado di consentire sovrimpressioni, mascherini, dissolvenze ecc.)e alla macchina da ripresa usata tradizionalmente per le animazioni, consistente in una camera disposta su uno stativo verticale in grado di effettuare zoomate e carrellate sul un piano orizzontale in cui si disponevano i disegni o le fotografie da riprodurre.

Piano a sua volta composto di parti mobili, in grado cioè di scorrere e ruotare mediante dispositivi più o meno automatici, ovvero manovelle e motorini elettrici (banco di ripresa). La titolazione di un film o di un programma televisivo era ancora ottenuta con procedimenti totalmente manuali: scritte realizzate con tempere e pennelli su cartoni neri o su fogli di acetato trasparente, caratteri trasferibili applicati con la procedura della decalcomania (chefurono introdotti solo alla fine degli anni '60), elaborazioni grafiche in bianco e nero basate sulle procedure fotomeccaniche (reprocamere, retini tipografici, stampe al tratto, ovvero prive di mezzi toni).

Ma ecco in quegli anni i primi registratori e i primi mixer in grado di consentire il montaggio e la manipolazione elettronica delle immagini. Vengono introdotte anche le prime titolatrici dotate di un generatore automatico di caratteri tipografici. Sul finire degli anni '70, mentre l'industria informatica si avvia a lanciare sul mercato i primi home computer, la post-produzione televisiva comincia ad includere un nuovo tipo di trattamento delle immagini, consentito dai primi generatori di "effetti digitali" inseriti nei mixer più sofisticati (effetti cosiddetti di squeeze zoom, ovvero riconducibili a rapide "evoluzioni" o traiettorie visive basate su moltiplicazioni, ingrandimenti e riduzioni delle immagini nello schermo manovrabili in tempo reale).

Il teleschermo si frantuma e si dinamizza attraverso il continuo sdoppiamento di una cornice capace di generare al suo interno una vertiginosa proliferazione di ulteriori cornici. Ben presto l'effetto smette di essere uno sporadico artificio retorico e tende ad assumere il ruolo di un virtuosismo ludico persistente, spesso del tutto ingiustificato e fuori luogo. Ma l'ebbrezza ingenua di chi scopriva in quegli anni con quanta facilità si poteva intervenire sull'immagine elettronica è abbastanza comprensibile.

Nell'80 al caleidoscopico repertorio dei nuovi mixer si aggiunge la possibilità di un maggiore controllo dell'intervento sulle immagini grazie all'introduzione delle prime "tavolette grafiche", ovvero di sistemi grafico-pittorici digitali in grado di interagire in tempo reale con l'immagine video. La nuova macchina è destinata quindi non più al montatore ma al grafico, non riguarda più solo la possibilità di elaborare contributi grafici per la post-produzione televisiva, ma consente di produrre ex novo una serie di "quadri" ottenuti per lo più con una simulazione elettronica delle tecniche manuali tradizionali (acquerello, gessetto, aerografo, collage ecc.).

In altri termini, con la nuova "tavolozza elettronica" (Paint Box, dal nome del modello più noto e diffuso nel broadcasting TV) è possibile non solo il trattamento elettronico di immagini acquisite in vario modo e da varie fonti (telecamere su banco di ripresa, videonastri, immagini video in presa diretta ecc.), ma si può produrre una intera animazione frame by frame, inquadratura per inquadratura. Sempre nei primi anni '80, anche il cinema comincia ad avvalersi dell'elettronica per introdurre nuove possibilità espressive nel proprio linguaggio.

Le reti televisive cominciano a dotarsi anche di nuove sigle grafiche: i prodotti più richiesti per ostentare il proprio aggiornamento tecnologico erano dei logotipi animati realizzati con tecniche di simulazione tridimensionale. Prodotti che, in quegli anni, comportavano ancora un notevole impegno per le reti sia in termini economici sia per le difficoltà logistiche, progettuali e realizzative implicate.

Alla metà degli anni '80 il mondo del personal computer , che nel frattempo si è espanso a livelli di massa grazie soprattutto all'effetto trainante dei videogiochi, si arricchisce di una nuova "filosofia" che riguarda soprattutto le procedure operative, l'interazione dell'utente con la macchina. Si utilizza un nuovo tipo di interfaccia grafica che simula nello schermo "finestre" e "scrivanie", ovvero un ambiente familiare in cui può muoversi agevolmente anche chi non sa nulla di programmazione o di tecniche informatiche. nasce la cosiddetta editoria personale o da scrivania (desktop publishing), una realtà presto destinata ad interessare direttamente anche il mondo della grande editoria e della grafica professionale.

Comincia anche a delinearsi la potenzialità multimediale del computer domestico: all'inizio si tratta di semplici archivi, data base o schedari ipertestuali personalizzabili, sorta di agende elettroniche in cui è possibile inserire suoni, disegni, piccole animazioni. Si tratta già di qualcosa di non riducibile ad un comune programma per l'archiviazione dei dati, utile solo per mettere un Po' d'ordine in una massa d'informazioni eterogenee: la flessibilità operativa del nuovo sistema ipertestuale permette di considerarlo un vero e proprio sistema di programmazione, un linguaggio peraltro assai evoluto, in quanto basato su un approccio intuitivo e non già sulle astrazione numeriche del "linguaggio macchina".

Negli anni '90 la nuova prospettiva multimediale si diffonde a livello di massa. Il tema della Realtà virtuale diventa all'ordine del giorno. Le reti telematiche diventano una realtà comune, condivisa da milioni di persone ormai in grado di "navigare" in Internet. Le TV satellitari o via cavo rappresentano ormai dimensioni mediatiche in veloce espansione, sempre più basate sull' integrazione e sull'interattività tipica degli strumenti digitali. Nello stesso tempo, la nuova grafica cinetica e multimediale raggiunge una fase di maturità nella quale non c'è più posto per l'ingenua euforia tecnologica dei primi anni '80.

Le reti televisive sono sempre più pressate dalla necessità di diversificare e specificare la propria offerta di programmi in un panorama saturo d'immagini e tendente all'omologazione che, proprio per questo, impone una rigorosa definizione dell'identità visiva di ogni emittente (occorre insomma rendersi riconoscibili tra migliaia di canali). La comunicazione visiva riconquista così un ruolo essenziale nella dimensione strategica del coordinamento d'immagine, ma questa volta gli aspetti audiovisivi, cinetici, multimediali, tendono ad essere prevalenti rispetto alle tradizionali applicazioni editoriali, ovvero quelle relative alla "carta stampata".

Nel frattempo molte figure professionali si sono riconvertite in relazione ai nuovi sistemi produttivi per non estinguersi del tutto. Nelle nostre mappe mentali la dimensione alfabetica, la tradizione tipografica da cui è sorta la comunicazione visiva in senso moderno, è ormai inestricabilmente connessa con la nuova iconografia digitale e con la dimensione avvolgente di una plurisensorialità divenuta interamente programmabile. Il graphic designer, abituato com'è a guardare con attenzione quanto avviene nel campo della ricerca artistica "autonoma", oggi non può che tener d'occhio con particolare attenzione tutta la sperimentazione linguistica prodotta dall'arte del '900 in relazione ai media a sviluppo temporale (a partire, dunque, dall'aperto e serrato confronto, inaugurato dalle avanguardie storiche, con quei nuovi strumenti e materiali che una civiltà fondata sulla Tecnica non può che proporre a getto continuo).

Notazioni approssimative o programmazione

Problemi di notazione nello sviluppo della coreografia e della sincronizzazione suono/immagine: come si annotano i dati relativi agli aspetti sonori e cinematici? Se si persegue una esattezza matematica, più che a delle notazioni in senso tradizionale, bisognerà ricorrere alle attuali possibilità di programmazione digitale del movimento e del suono che sono offerte dalle applicazioni informatiche. Oggi, infatti, è la logica stessa del computer ad aver diffuso una specie di standard, di linguaggio comune sia per il coreografo che per il musicista.

Ma se invece il ruolo della notazione vuole essere, da parte del compositore, puramente indicativo, e lasciare così ampi margini d'interpretazione creativa all'esecutore (inteso nel senso che il termine assume in campo musicale), allora si dovrà continuare ad inventare libere modalità evocative, metaforiche più che univocamente descrittive, nella prefigurazione progettuale dei suoni, dei movimenti nonché dei loro rapporti sinergici, privilegiando il significato espressivo globale dell'interazione rispetto alle modalità specifiche di esecuzione.

Per indicare la traiettoria di un movimento basta in genere disegnare una linea (action line) con una freccia che indica la direzione. Se poi vogliamo già indicare sulla linea in quanti fotogrammi avverrà il movimento non dobbiamo far altro che disegnarla tratteggiata (dove i singoli trattini rappresentano appunto i singoli frames). Se il movimento è uniforme i trattini saranno tutti uguali. Se invece prevediamo, ad esempio, una partenza lenta e un arrivo veloce, faremo i primi trattini più corti e gli ultimi più lunghi. Se il movimento avviene in senso prospettico, lungo l'asse z dello spazio, allora dobbiamo tener presente la semplice regola che dice: la riduzione del moto apparente di un oggetto che si muove nello spazio prospettico a velocità costante è direttamente proporzionale alla riduzione delle grandezze apparenti percepite da quel medesimo punto d'osservazione.

Il che, in pratica, si traduce nella necessità di far decrescere in senso prospettico i trattini della nostra action line man mano che questi si avvicinano al punto di fuga posto nel nostro orizzonte di riferimento (seguendo le stesse regole che useremmo per disegnare le classiche rotaie del treno in prospettiva). Oltre alla durata dei movimenti degli oggetti, bisogna ovviamente indicare nello storyboard le durate delle stesse inquadrature. In campo musicale si usano anche, come sappiamo, delle indicazioni cosiddette agogiche, ovvero riferite al movimento sonoro.

L'agogica indica ogni modificazione transitoria di accelerazione o di rallentamento che si può apportare a un ritmo base, spesso modificando anche l'intensità sonora (H. Riemann). Si usano termini indicativi del tipo: pianissimo, adagio, presto, allegro ecc. Indicazioni che non hanno certo un significato univoco, matematico. Così come mettere in relazione un movimento chiave della parte visiva con una battuta musicale è qualcosa di non riducibile ad un fatto meccanico o ad una regola fissa, ma riguarda piuttosto delle scelte espressive contestuali, legate per lo più alla sensibilità individuale.

Argomentare le scelte

In che misura è utile rendere esplicita, con un apposita relazione, la "filosofia" del progetto? E come andrebbe impostata per argomentare le scelte in modo persuasivo? In quali casi lo storyboard assume la forma di un manuale di Corporate Design?Per quanto impostato in forma autoesplicativa, uno storyboard viene in genere accompagnato da una presentazione verbale con cui si cerca di offrire al cliente la giusta chiave di lettura. Meglio ancora se le argomentazioni vengono fornite in forma scritta.

Esistono infatti persone che danno molta importanza alle spiegazioni logiche e non si lasciano catturare dalle immagini se prima non le hanno "giustificate" sul piano discorsivo: vogliono sapere il perché di tutte le scelte operate. Si tratta di soggetti che hanno una strategia cognitiva basata principalmente sulla linearità dei processi deduttivi, sulla consequenzialità del pensiero razionale. Sappiamo che non tutto è razionalizzabile, ma le astuzie retoriche per convincere questo tipo di persone richiedono solo una certa versatilità nei riferimenti culturali e una qualche familiarità con le tecniche argomentative.

Se ad esempio scriviamo: "abbiamoscelto il blu perché da ben note ricerche psicologiche risulta che é un colore rilassante e perché, com'è noto, non crea problemi sullo schermo televisivo a differenza del rosso saturo o del bianco", affermiamo qualcosa di ragionevole ma che a rigore non dimostra nulla e non ha alcun valore esplicativo assoluto. Potevamo benissimo ricorrere alla motivazione opposta: "Abbiamo scelto il rosso perché tutti i nostri concorrenti adottano pedissequamente il blu credendo al vecchio luogo comune secondo cui è l'unico colore che non crea problemi tecnici in TV. Noi invece consideriamo il dinamismo di un'immagine anticonvenzionale, l'aspetto vivo e pulsante di un bel rosso saturo che quasi "sfonda" il teleschermo, come una chiara conseguenza logica dell'atteggiamento trasgressivo che caratterizza la nostra emittente".

Si tratta in sostanza di scelte intercambiabili, ma occorre presentarle come l'esito necessario di un ragionamento che possa facilmente ancorarsi, nei termini di una "concessione retorica", alle ideologie della nostra controparte. Questo tipo di presentazione serve ad accontentare quel 10% della nostra mente che sembra aver bisogno di vere o presunte motivazioni razionali, nonché di riferimenti al già noto, per poter accogliere senza troppe esitazioni un'idea nuova.Esistono casi in cui l'impegno economico per la realizzazione di un progetto rende più che ovvio il ricorso ad una strategia argomentativa molto ampia ed articolata.

Il ruolo d'importanza vitale che per una organizzazione può avere un intero progetto di Corporate Design teso a rinnovarne l'immagine, è tale da rendere la parte "ideologica" addirittura preponderante rispetto agli elaborati grafici in senso stretto. Ma in questo caso non si tratta più solo di storyboard: la presentazione di questo tipo di progetti consiste in genere nella messa a punto di un voluminoso manuale d'immagine coordinata.

Sigle istituzionali

Che cos'è una sigla? In un dizionario alla voce "sigla" troviamo le seguenti definizioni: 1) La lettera o le lettere iniziali di una o più parole usate convenzionalmente come abbreviazione al posto della denominazione per esteso; 2) Firma abbreviata, composta per lo più dalle iniziali del nome e del cognome; 3) Sigla musicale, breve motivo musicale che apre o chiude una trasmissione radiotelevisiva o ne annuncia una parte, o che accompagna un comunicato commerciale; 4) Impronta personale, cifra stilistica inconfondibile.

Dal latino tardo sigla, neutro plurale, col significato di "abbreviazione" (Dal Grande Dizionario Garzanti della lingua italiana, Milano 1990). Il vocabolario, come si può osservare, non fa menzione al significato di "sigla grafica animata", sebbene previsto nel gergo corrente di chi opera nel campo audiovisivo, che è proprio quello a cui ci riferiamo in questo scritto. Ma è facile ugualmente ricavare questo concetto dalla gamma di significati previsti dal dizionario.

La sigla, infatti, nel nostro caso, nasce proprio dall'unione di un logotipo (sintesi grafica di una sorta di "firma" facilmente riconoscibile, memorizzabile e riproducibile, riferita alla presunta identità di un prodotto, o anche di una organizzazione idealmente rappresentata come soggetto-emittente del messaggio), con una serie di segnali visivi e sonori più o meno direttamente riferiti al contenuto specifico cui rinviano sia per contiguità segnaletica che per similarità iconica (il gioco delle evocazioni simboliche, delle metafore impiegate).

In un medium a sviluppo temporale la sigla grafica tende ovviamente a configurarsi in termini dinamici, a proporsi come un prodotto audiovisivo completo, capace di riassumere in pochi secondi un messaggio a volte anche molto complesso. Ma lo scopo della sigla audiovisiva non è tanto quello di attivare delle risposte interpretative consapevoli da parte dello spettatore, quanto piuttosto quello di predisporlo psicologicamente alla visione e all'ascolto del programma che segue.

La sigla funziona quindi anche come una soglia paratestuale che introduce il testo vero e proprio. Ma è anche un prodotto comunicativo autonomo che spesso ha una funzione insieme "metalinguistica" (rispetto al contesto cui rinvia) e autoreferenziale in ragione del proprio carattere di messaggio a dominante estetica (dove cioè l'apertura verso una molteplicità di significati e l'attenzione rivolta alle modalità compositive o all'efficacia degli stimoli sensoriali assumono un ruolo preponderante).

Il carattere reiterativo di una sigla impone, inoltre, una certa complessità strutturale del messaggio, in quanto un aspetto troppo didascalico o assimilabile in modo troppo diretto ed immediato può entrare in contrasto con l'esigenza di mantenere attivo l'interesse dello spettatore anche dopo l'ennesimo "passaggio" sul teleschermo, dunque si tratta di evitare un rapido consumo del potere di cattura dei segnali visivi e sonori adottati. Per richiamare l'attenzione dell'occhio è importante fare un abile uso del movimento: la componente cinetica e coreografica risulta dunque essenziale.

La sigla diventa insomma un'ancora sinestetica, qualcosa che fa scattare nello spettatore una sorta di riflesso condizionato, proprio come il suono delle campane del paese annuncia il giorno di festa, crea un'atmosfera, predispone la mente al rito collettivo, raduna la gente nella piazza o nella chiesa. Per approfondire il discorso sulla sigla bisogna però affrontare il tema del progetto grafico applicato alla comunicazione audiovisiva.

C'è un aspetto, in particolare, che occorre circoscrivere, quello della sigla come marchio istituzionale di una rete televisiva. Se dunque la sigla videografica assume un ruolo istituzionale (Station Ident ) come impostare la strategia progettuale?Bisognerà probabilmente concepirla fin dall'inizio nel quadro complessivo di una immagine coordinata: essa sarà il nucleo vivente, l'elemento generativo di tutti gli altri elementi di una linea grafica. Marchio e logo andrebbero dunque concepiti già in vista di una processualità e di un uso legato alle dinamiche audiovisive delle tecniche d'animazione.

Graphic Design e Storyboarding

Un campo elettivo di applicazione dei metodi qui proposti è quello del progetto grafico applicato ai media a sviluppo temporale. Sebbene qualsiasi testo presuma uno sviluppo sequenziale e un tempo di lettura, qui non intendiamo riferirci ai tradizionali supporti editoriali, per esempio libri o riviste, ovvero prodotti cartacei in genere, bensì al settore in continua espansione che si avvale di supporti audiovisivi e multimediali: da quelli tradizionali, sia fotochimici ( film, multivisione con diapositive), che elettronici (televisione, home video), a quelli più recenti basati sulla tecnologia informatica (strumenti digitali, programmi e interfacce per computer, compact disc, reti telematiche, ipermedia, sistemi di realtà virtuale).

Durante gli ultimi decenni abbiamo verificato una progressiva tendenza all'integrazione tra le sfere produttive dell'industria editoriale, di quella cinetelevisiva, nonché di quella discografica, nel segno unificante dell'informatica e delle tecnologie digitali. Informazione e spettacolo, cultura e telecomunicazioni, formazione e pubblicità, rappresentano ormai delle realtà operative facilmente integrabili, rese omogenee da una medesima tecnologia dominante.

Anche le tradizionali forme espressive, le più consuete attività ricreative possono coesistere con le nuove modalità lavorative e comunicazionali (a volte, acquisendo persino un plusvalore, una speciale funzione compensatoria), essere per così dire riscoperte, rilanciate proprio a partire dal ruolo trainante e avvolgente dell' ecosistema mediatico in cui siamo immersi. Il ruolo del grafico non viene affatto meno in questo contesto, semmai i pericoli per le discipline del progetto oggi stanno proprio nell'espansione della dimensione "ipergrafica", nel vertiginoso moltiplicarsi delle possibilità d'intervento, nel generalizzarsi di certe competenze in termini di automazione e diffusione di strumenti sempre più versatili.

Ma per gli eredi della tipografia gutenberghiana, la dimensione continua e veloce dell' innovazione tecnica non rappresenta certo un ostacolo inatteso, né qualcosa di estraneo alla propria mentalità. Per loro il cerchio non può che chiudersi ancora una volta in termini di ennesimo impegno propositivo: proprio il pericolo dell'omologazione su larga scala genera di rimbalzo una sempre rinnovata esigenza di strategie creative e di competenze aggiornate. Così i nuovi problemi diventano anche nuove opportunità.

Pressoché tutti i prodotti non cartacei a sviluppo temporale che possono richiedere l'intervento qualificato di un graphic designer (film, video, canali e programmi televisivi, pagine Internet, audiovisivi didattici, multivisioni, prodotti ipermediali, insegne cinetiche su schermi programmabili ecc.), esigono, almeno per ottenere risultati potenzialmente eccellenti, una accurata pianificazione della sequenza di quelle inquadrature che occorre presentare al pubblico in un determinato ordine (non necessariamente univoco o lineare) e prevedendo uno sviluppo del messaggio per un certo arco di tempo.

L'aspetto forse più difficile da controllare per chi si è specializzato nella comunicazione visiva, riguarda la necessità di coniugare le immagini con i suoni in un processo dinamico che richiede particolari attitudini e conoscenze tecniche. Ma questa difficoltà è notevolmente ridotta dall'uso di un metodo progettuale che può tradurre in forma grafica sia la dimensione sonora, sia l'evoluzione cinetica delle forme, mediante opportune notazioni convenzionali. Del resto sono a volte gli stessi strumenti digitali odierni a suggerire la possibilità di gestire entità eterogenee, come immagini e suoni, attraverso un medesimo procedimento di visualizzazione o uno stesso sistema operativo.

Ciò può favorire il dialogo tra professionisti ed esperti in discipline anche molto distanti tra loro. E dunque rendere più agevole il lavoro di équipe. Già oggi i programmi usati, ad esempio, da un musicista per comporre brani musicali al computer, sono sostanzialmente simili (parlano lo stesso 'linguaggio iconico') di quelli usati da un grafico per elaborare immagini. Se può essere facile, anche per un osservatore ingenuo, capire cosa stia facendo un tizio alle prese con tela, pennelli e tubetti di colore, o un altro intento a muovere le mani sulla tastiera di un pianoforte, non così semplice è attribuire al primo colpo d'occhio un ruolo professionale specifico a qualcuno la cui attività prevalente consista nel muovere manualmente un mouse fissando con lo sguardo il monitor di un computer.

Un tempo il grafico lavorava esclusivamente con testi e immagini statiche e bidimensionali destinati ad essere riprodotti con un qualche procedimento di stampa. Oggi nel curriculum di ogni graphic designer si trova, in genere, una maggior varietà di settori d'intervento: oltre al progetto grafico per la stampa editoriale troviamo sempre più spesso sigle televisive, sequenze di tipografia cinetica, impaginazioni di siti Internet, interventi grafici per filmati pubblicitari, interfacce di sistemi multimediali.

Qualsiasi progetto d'immagine coordinata di un qualche rilievo implica ormai il probabile ricorso a varie applicazioni "sequenziali" che possono giovarsi di un uso mirato e consapevole dei metodi di storyboarding.

Uno dei principali settori d'intervento per l'esperto in grafica cinetica è quello della comunicazione televisiva. Le reti televisive tradizionali utilizzano l'etere come canale di trasmissione. Oltre alla trasmissione via etere, esiste oggi la possibilità d'inviare programmi televisivi attraverso il cavo e il satellite. le tecnologie digitali, unite all'uso dei più evoluti sistemi di trasmissione, consentono di sviluppare una comunicazione bidirezionale tra utenti di personal computer che è destinata col tempo a ridurre la centralità della ormai concettualmente obsoleta TV generalista, quella cioè che tratta un po' di tutti gli argomenti e invia ad una massa più o meno indifferenziata di utenti messaggi a senso unico (privi di feedback, ovvero della possibilità di una puntuale risposta del destinatario in grado d' influenzare lo svolgimento del processo comunicativo).

Già oggi l'uso del cavo consente di sviluppare una comunicazione più mirata, tendenzialmente interattiva, basata sulle richieste specifiche dell'utente. Anche la TV satellitare, consentendo la copertura di territori ben più vasti dei confini nazionali, tende a specializzarsi in senso tematico (su scala planetaria anche occuparsi di un singolo argomento, per quanto d'interesse "minoritario", può rivelarsi un buon affare). Inoltre, proprio l'adozione di una scala transnazionale, con la conseguente esigenza di ovviare alle difficoltà legate alle barriere linguistiche e ai diversi contesti culturali, spinge i produttori a fare un ampio uso della comunicazione visiva.

Oltre alla necessità di distinguersi, di rendere riconoscibile il proprio messaggio tra una molteplicità di emittenti, le reti televisive devono ovviamente promuovere continuamente la loro immagine al fine di accrescere il numero dei propri utenti, di mantenere stabile nel tempo il buon rapporto di empatia già stabilito con un certo numero di spettatori, nonché di ancorare l'utente alla programmazione quotidiana mediante continui richiami seduttivi tesi ad evitare che questi cambi canale approfittando magari di qualche "punto debole" del flusso audiovisivo (ad esempio, i momenti di passaggio tra un programma e l'altro). In questo contesto, il ruolo strategico del graphic design può essere decisivo. Anche per le reti televisive vale la regola che l' elemento su cui si fonda l'intero progetto dell'immagine coordinata è rappresentato dal marchio d'identificazione.

Marchio e/o Logo rappresentano dunque quel centro visivo e concettuale che dovrebbe riassume, già al primo colpo d'occhio, la "missione" fondamentale, l' identità stessa dell'emittente (il suo modo di costituire un punto di vista, una mappa della realtà). Ogni punto di vista è necessariamente parziale, tanto più quando pretende di essere rivelatore di una presunta realtà oggettiva. Ma oggettivo, per così dire, può essere solo l'occhio in quanto cosa, in quanto concreta entità percettiva, non lo sguardo che esso dischiude o il mondo che esso traduce in una mera proiezione visiva.

Una emittente può, certo, risultare più o meno credibile. Ma questa immagine positiva dipende in larga misura dal modo in cui presenta anzitutto se stessa e costruisce la propria identità produttiva. Il Logo è l'impronta visiva che trasforma una organizzazione necessariamente anonima e collettiva in un soggetto dotato di un carattere unico e inconfondibile, di una precisa "personalità". Senza una firma autenticata che attesti l'identità di un soggetto determinato, difficilmente una qualsiasi testimonianza può risultare credibile.

Allo stesso modo, senza un logo (l'equivalente simbolico di una firma), una qualunque emittente non potrebbe neppure essere riconosciuta come tale o distinguersi dalle altre. Per questo ogni rete televisiva ha un suo logotipo animato (Station Ident) che viene trasmesso continuamente durante la programmazione giornaliera per segnalare ai telespettatori la presenza costante di un soggetto che si assume la responsabilità di quanto trasmesso e per ricordare, a chi si fosse casualmente "messo in ascolto" (o, meglio, in contatto visivo), su quale canale è sintonizzato il suo televisore. Il logo dell'emittente avvia un gioco di scatole cinesi: la rete stessa è il contenitore più grande, al cui interno possiamo trovare i singoli programmi (che a loro volta avranno bisogno di un involucro e di un segnale d'identificazione).

Ciascun programma può prevedere una sigla animata, titoli di testa o di coda ed eventuali altri elementi di titolazione elettronica basati su scritte in movimento (tipografia cinetica), oltre che un certo numero di altri contributi grafici (indici segnaletici o cornici d'impaginazione, intersigle, cartine geografiche, tabelle e diagrammi esplicativi, illustrazioni e animazioni di vario genere, scenari virtuali ecc.). Più tutti questi elementi, per quanto necessariamente eterogenei, appaiono "pensati" e integrati tra loro, ispirati ad una medesimo repertorio linguistico, collegati da una coerente linea grafica, più il messaggio complessivo dell'emittente risulterà originale e ben configurato rispetto al target di riferimento.

La risultante globale di tutte le componenti sensoriali "periferiche" (i processi di configurazione linguistica), unite a quelle "centrali" riferibili ai contenuti specifici dei programmi trasmessi, determina l'Immagine in senso ampio di un'emittente. Entro tale accezione allargata del termine immagine, è chiaro che al graphic design, inteso come ambito professionale che pur si occupa in prevalenza di aspetti visivi, non può essere attribuita la responsabilità esclusiva dell'efficacia del risultato finale, ma solo dell'aspetto strettamente legato alla messa a punto, per grosse linee, di un progetto unitario, di un manuale d'immagine coordinata e di un uso adeguato delle strategie di storyboarding. Il cuore di tale progetto sarà, come sempre, costituito dal Logo - o meglio, trattandosi nella grafica TV di concepire immagini semoventi - dal Logo pensato fin dall'inizio come un oggetto dinamico (una sorta di creatura vivente, capace di crescere e di camminare con le proprie gambe). Il progetto di uno Station Ident richiede dunque, in forma più o meno esplicita, la definizione di un più ampio contesto d'immagine coordinata (Identità di Rete).

«Come un racconto per oggetti, l'image contrassegna le membra sparse del corpo in una unificazione percettiva: dalla marchiatura del bestiame a marchi delle corporation petrolifere».

(Giovanni Anceschi, 1985)

Cfr. Giovanni Anceschi, Image: Il corpo mistico dell'organizzazione, in "Lineagrafica", Azzurra Editrice, Milano, 1.1985, pp.34-38.

«CORPORATE IDENTITY = significa unità di contenuti, dichiarazioni e comportamenti di un'azienda o di un'organizzazione».

«CORPORATE DESIGN = significa che l'espressione centrale di un'impresa - dunque la sua 'filosofia' - deve essere visualizzata nei prodotti e quindi essere riconoscibile per l'utente (identità interiore ed esteriore, coerenza di espressione tra interno ed esterno)».

(Cfr. Bernhard E. Bürdek, 1991)

Corporate identity di una rete televisiva:

* premesse metodologiche

* ideologia (idea-guida)

* logo (struttura e verifiche a tutti i livelli e con tutti i supporti)

* marchio (genesi, struttura, posizionamento, verifiche)

* metamorfosi del marchio

* versioni tridimensionali del marchio

* lettering televisivo e tipografico

* relazioni previste tra marchio e logo

* videografica (sigle, supporti informativi, inserti, illustrazioni, identificazione e impaginazione di programmi, riferimenti per effetti speciali, sistemi modulari per processi automatici)

* grafica editoriale per stampati e oggetti promozionali (penne, orologi, bottoni, magliette ecc.)

* pagine per Internet

* set-design (scenografie, arredamenti)

* elementi architettonici di valore simbolico e allestimenti per esposizioni o manifestazioni culturali in genere

* design dei costumi

* design del suono

* autopromozione di rete e promozione programmi

# MARCHIO E LOGO AL CENTRO DELL'IMMAGINE COORDINATA

Quando il progetto fa la differenza

Nella comunicazione mediatica c'è il problema di conferire una personalità riconoscibile non solo al singolo programma o prodotto audiovisivo ma anche all'emittente che lo propaga via etere o lo irradia via satellite o lo invia in rete attraverso un cavo. In questo contesto, il ruolo strategico dei segnali visivi d'identificazione, o meglio di quelle componenti spesso considerate del tutto periferiche, quasi fossero mere cornici decorative rispetto ai contenuti trasmessi, non può che rivelarsi invece d'importanza decisiva nello stabilire e mantenere un contatto "empatico" con lo spettatore. Non tutti, ovviamente, posseggono gli strumenti culturali per rendersi conto che, anche in questo settore, è spesso la qualità di un progetto d'insieme ben coordinato a fare la differenza.

«Quel che mi piace fare è entrare nell'apparato produttivo di una rete televisiva, comprenderne la struttura, operare per apportarle un vantaggio strategico, stabilire una relazione in modo che nel bilancio se ne avverta la differenza».

(Martin Lambie-Nairn, 1997)

La definizione dell'incarico

Come in tutte le attività progettuali, le prestazioni professionali del Graphic Designer si basano sul rapporto con una committenza e sull'analisi rigorosa delle esigenze poste in gioco dalla richiesta che di volta in volta viene formulata. Esistono vincoli interni alla disciplina (necessità metodologiche, limiti tecnici, regole da rispettare e di cui il "profano" può ignorare del tutto l'esistenza). Ma esistono anche parametri esterni che dipendono solo dal particolare contesto entro cui si colloca questo o quell'intervento (caratteristiche del destinatario a cui ci si rivolge, risorse economiche impegnate per l'operazione, situazione determinata dalla concorrenza ecc.). Il colloquio preliminare con il cliente deve dunque essere considerato uno dei momenti chiave dell'esercizio professionale, e deve prevedere uno scambio di informazioni che sia il più ampio e completo possibile. Solo una corretta impostazione o riformulazione del problema può rendere efficace la ricerca di una soluzione da proporre.

Solo un accordo iniziale sui criteri di valutazione del prodotto può scongiurare imbarazzanti equivoci o arbitrarie ingerenze altrui sul processo ideativo. In questa fase si definiscono ruoli e competenze, ci si accorda sugli onorari, si acquisiscono informazioni preziose per determinare i requisiti di cui tener conto nel progetto. Le regole da seguire sono quelle tipiche ormai di tutte le discipline del design, applicate e consolidate nel tempo anche dagli operatori impegnati nelle strategie pubblicitarie.

Occorre tener presente che uno degli aspetti preliminari e più qualificanti di una strategia progettuale riguarda la capacità di reinquadrare le richieste del cliente cercando di far emergere nel dialogo, al di là delle eventuali ingenuità o idee precostituite dell'interlocutore, l'effettiva natura del problema.

Un tipico elenco indicativo dei punti da affrontare nel briefing con il cliente può essere riassunto nel seguente schema:

Condizioni del mercato e Missione del cliente

Posizionamento del prodotto

Obiettivi da conseguire

Destinatari da raggiungere e tipo di rapporto da instaurare

Status desiderato e contesto culturale di riferimento

Messaggio chiave

Tono del messaggio

Informazioni istituzionali o aziendali

Caratteristiche del prodotto

Innovazione da introdurre

Vincoli tecnici

Requisiti di legge

Data di consegna

Formato previsto

Budget stanziato

Specifiche esigenze produttive

Le scelte progettuali si baseranno dunque su queste informazioni preliminari raccolte nel colloquio con il cliente. Sarà opportuno in alcuni casi (in base alla psicologia e al ruolo dell'interlocutore) offrire almeno tre versioni alternative del progetto di massima al cliente, in modo che questi non si senta posto di fronte ad una sola ipotesi, ma neppure "preso nel dilemma" di dover scegliere tra due possibilità. Riassumiamo in sette punti gli argomenti da chiarire con le domande rivolte al cliente:

1) - Stato desiderato (obiettivo, risultato perseguito)

2) - Stato attuale (definizione del contesto presente)

3) - Stato problematico (impedimenti e vincoli che ostacolano il cambiamento)

4) - Risorse necessarie per ottenere lo stato desiderato

5) - Criteri adottati per controllare la validità del processo evolutivo intrapreso al fine di raggiungere l'obiettivo prescelto (possibilità di feedback o "retroazione autocorrettiva")

6) - Ricerca mnemonica delle modalità operative già collaudate che, in situazioni analoghe, hanno consentito di perseguire con successo un risultato in base alle stesse risorse attualmente disponibili.

7) - Valutazione anticipata delle risorse che si è disposti ad impiegare per realizzare il nuovo progetto.

Gli stilemi dominanti

«Quando una strategia, che era possibile ma difficile con il film, diventa attuabile nel video mediante l'attivazione di un interruttore di "preset" o nel computer grafico grazie a un comando, si tenderà ad usarla più frequentemente. Il che non la rende più sensata. La sfida è precisamente quella di trasformare gli "effetti" in espressioni, in unità sintattiche significative».

(Gene Youngblood, 1989)

Quali sono oggi i linguaggi e gli stilemi più usati nella videografica e nell'infodesign? Esiste un rapporto tra questi linguaggi e le avanguardie artistiche più o meno recenti? Viviamo in un'epoca caratterizzata dall'eclettismo e dalla contaminazione dei linguaggi. La tecnologia elettronica e informatica ha contribuito in modo sostanziale a determinare questo contesto storico.

La condizione della post-modernità è stata definita in svariati modi all'interno degli ormai innumerevoli contributi teorici, ma sembra comunque connessa strutturalmente con i cambiamenti dello scenario produttivo nella realtà industriale a partire dalla fine di un ruolo egemone delle tecnologie meccaniche. Sul piano dei linguaggi della grafica questi fenomeni hanno portato ad una perdita della centralità ideologica del cosiddetto Stile tipografico internazionale, inteso come quell' approccio sistematico che perseguiva la sintesi geometrica, la costruttività del segno e un ideale riferimento alle metodologie razionali, e che trovava la sua maggiore legittimazione teorica nelle rigorose necessità compositive imposte dalla moderna tipografia meccanica.

Anche se, per contro, oggi gran parte delle istanze di un metodo progettuale di ascendenza gutenberghiana sembrano rilanciate proprio dalla diffusione della logica digitale e, dunque, da una ennesima riscossa, per così dire, dell'uomo alfabetico rispetto alla dimensione iconico-orale implicita nel flusso elettronico della cultura video o paleotelevisiva (quando cioè la comunicazione elettronica era ancora tutta improntata sulle caratteristiche dominanti delle tecniche analogiche).

Ecco allora la coesistenza dell'approccio moderno con la deflagrazione, la disseminazione e la contaminazione post-moderna dei linguaggi delle avanguardie artistiche del '900, divulgati ormai a livello di massa proprio grazie alle tecnologie elettroniche, insieme a recuperi di stilemi pre-moderni, il tutto in un'ottica performativa, ovvero sostanzialmente anti-ideologica e pragmatica. Sul piano della nuova realtà tipografica, emblematica appare la palese influenza odierna (su scala non certo locale, bensì quasi come una sorta di International Style "alternativo") di un linguaggio grafico come quello, ad esempio, di Neville Brody, il quale sfrutta a getto continuo, spesso in anticipo sugli altri autori, la vasta gamma di possibilità manipolatorie offerte dal computer anche nelle più consuete applicazioni editoriali.

L'avvento delle tecniche digitali nei linguaggi della videografica ha avuto un evidente impatto innovativo, al punto che l'attuale popolarità di questa disciplina è in gran parte dovuta all'irruzione della computer animation e della post-produzione digitale nella dimensione televisiva, avvenuta all'inizio degli anni '80. La grafica televisiva, ovviamente, esisteva anche prima dell'avvento di queste tecnologie, ma la sua realtà disciplinare (nonché il suo basarsi su tecniche puramente manuali e cinematografiche) non rappresentava certo una novità o un fenomeno che poteva interessare un vasto pubblico, ma solo la cerchia molto ristretta degli addetti ai lavori.

Lo sviluppo storico della grafica televisiva è in un certo senso gravato da una sorta di vizio d'origine, poiché agli inizi della storia della televisione (per noi, in Italia, si parla degli anni '50) l'intervento grafico si riduceva sostanzialmente ai rulli di testa e di coda delle trasmissioni. In questo senso la grafica TV si trovava oggettivamente in ritardo rispetto al dibattito culturale che già caratterizzava la grafica della carta stampata. Occorre comunque osservare che gli esordi della televisione italiana furono pur sempre all'insegna di un ottimo progetto d'immagine coordinata, quello impostato da Erberto Carboni, uno dei personaggi chiave del fecondo contesto disciplinare milanese di quegli anni.

Erberto Carboni, Pubblicità per la Radiotelevisione, Silvana Editoriale d'arte, Milano 1959.

AA.VV. Erberto Carboni,  Electa, Milano 1985.

Accanto a quello decisivo di Carboni, troviamo inoltre i pregevoli benché sporadici contributi di autori come Albe Steiner e Armando Testa. Nel periodo che va dagli anni '50 alla fine degli anni '70 troviamo poi saltuariamente impegnati con la realtà televisiva grafici di grande prestigio come Bruno Munari, Giancarlo Iliprandi, Pino Tovaglia, Hans Waibl, Sergio Ruffolo. Grafici, animatori ed artisti visivi tentarono in vari modi di arginare la "naturale" tendenza del mezzo televisivo a sottrarsi alla logica del progetto e al rigore etico della ricerca applicata alla comunicazione per immagini. Artisti come Pino Pascali ed Eugenio Carmi, animatori come Lodolo, Manfredi e Piludu, grafici come Alfredo De Santis, Piero Gratton e Michele Spera, si misurarono con questo arduo e spesso ingrato compito.

Nel 1979 fa la sua prima irruzione nel linguaggio televisivo la dimensione pirotecnica degli "effetti elettronici": si deve un primo sostanzioso apporto in questa direzione al regista bulgaro Valerio Lazarov che utilizzò i nuovi artifici retorici all'interno degli spettacoli di varietà. In seguito, un apporto pionieristico sul fronte delle nuove tecniche di computer graphics fu dato da Guido Vanzetti. Dai primi anni '80 ad oggi la videografica ha attraversato sostanzialmente tre fasi. La prima, che potremmo definire ingenua, si basava sull'uso e sull'abuso degli effetti speciali della post-produzione televisiva. Alcuni registi, come Francesco Crispolti e Sergio Spina, riuscirono comunque a fare un uso non gratuito della grafica elettronica.

La seconda, intorno alla metà degli anni '80 (che viveva ancora l'ebbrezza della nuova tecnologia), affermava su scala internazionale la logica omologante dei Flying Logos (logotipi volanti, per lo più cromati e luccicanti, realizzati in 3D); era ancora l'epoca in cui realizzare una sigla tridimensionale comportava un notevole impegno produttivo, dunque una effettiva possibilità di ostentare pubblicamente le proprie risorse tecnologiche ed economiche. Ogni rete televisiva si sentiva pertanto obbligata a raggiungere quello standard per mettersi al passo con i tempi, per uniformarsi al luogo comune del meraviglioso tecnologico.

Anche la Rai introdusse la simulazione tridimensionale nei nuovi logotipi che identificavano le tre reti nazionali con le forme della sfera, del cubo e della piramide (si trattava del primo tentativo di trovare nuove modalità autopromozionali e di coordinamento d'immagine, a partire da un logo, disegnato da Giorgio Macchi, completamente diverso da quello originario di Carboni). Ma lo scenario complessivo risultava ancora sostanzialmente caotico. Le rare eccezioni di uso appropriato e originale delle nuove tecnologie, presenti anche nella TV italiana (pensiamo, ad esempio, alle sigle di Mario Sasso o ai lavori di Mario Convertino a partire dalla trasmissione Mister Fantasy), non potevano ovviamente modificare quella linea di tendenza.

Ma bisogna tener conto che anche durante tale periodo continuavano pur sempre gli apporti "esterni" di alcuni artisti come Ugo Nespolo e Pablo Eucharren (chiamati da Mario Sasso a lasciare il loro segno nella linea grafica di Rai Due), di alcuni grafici e designer come Massimo Vignelli, Pierluigi Cerri, Tullio Pericoli, Sergio Salaroli, Ettore Vitale, nonché promettenti giovani leve come Enzo Sferra e Vittorio Venezia. Dopo quella seconda fase ancora euforica, si arriva agli anni '90, quando le reti più lungimiranti cominciavano ad abbandonare l'enfasi tecnologica e ad assumere un atteggiamento più circostanziato e maturo.

Da un lato la tecnologia più avanzata entrava a far parte ormai della routine produttiva, determinando un nuovo assetto dell'organizzazione del lavoro, dall'altro lato si riproponeva l'esigenza di uscire dall'omologazione e di ricercare una più specifica identità linguistica e culturale. Con l'avvento della TV via cavo e via satellite tale necessità di trovare un approccio più mirato e meditato alla comunicazione visiva diveniva ancor più evidente. La nascita della rete italiana RAISAT consentiva una inedita possibilità di sperimentazione linguistica e di programmazione unitaria dell' immagine videografica che inaugurava emblematicamente gli anni '90: un esempio, pressoché unico nel suo genere, d'intervento coordinato in termini globali da uno specialista del settore, Mario Sasso, il quale a sua volta si avvaleva in modo mirato dell'apporto di artisti noti per il loro lavoro quali autori indipendenti (Baruchello, Boetti, Canali, Cucchi, Luzzati, Nespolo, Paik, Plessi).

Intanto la TV privata, a cominciare dal gruppo Fininvest, il più importante concorrente della RAI, introduceva una dimensione più veloce e pragmatica nella grafica televisiva, avvalendosi in modo diretto delle esigenze del marketing. Dal 1982 il regista Lazarov si trovò a capo di una struttura operativa (Videotime) cui la Fininvest affidò la produzione coordinata delle proprie sigle di rete. Emblematica appare oggi la dichiarazione di Lazarov che già nel 1986 affermò la non opportunità, forse anche per la rilevata tendenza del telespettatore a fare zapping proprio nei momenti di passaggio tra un programma e l'altro, di produrre sigle più lunghe di 8-10 secondi. Finisce così, nel segno del più lucido realismo commerciale, lo spazio ipotetico della "sigla d'autore", ovvero di un prodotto capace di rendersi in parte autonomo rispetto alle esigenze strettamente segnaletiche di un palinsesto televisivo.

Oggi la videografica, dunque, nella sua fase "matura", non può che tornare ad inscriversi nella logica del progetto, dell'identità di rete, di una Brand Identity che trova un luogo esemplare di manifestazione nell'opera in campo internazionale di un designer televisivo che può considerarsi il maggiore esperto in tale settore, l'inglese Martin Lambie-Nair.

(Cfr. Martin Lambie-Nairn, Brand Identity for Television, Phaidon, London 1997).

Errori tipici dell'inesperto

* Un errore tipico è quello di non tener conto dell'aspetto vincolate di un esatto rapporto tra la base e l'altezza del rettangolo dell'inquadratura in relazione al tipo di canale utilizzato (video, cinema, diapositive ecc.). Si tende insomma ad utilizzare rettangoli scelti a piacere (o, addirittura, delle improbabili cornici quadrate) con esiti ovviamente fuorvianti sul pieno controllo progettuale e compositivo del messaggio iconico.

* Il principiante spesso non considera il carattere dinamico dell'inquadratura: i bordi del quadro non hanno lo stesso carattere vincolante, sul piano compositivo, di una pagina stampata, poiché il campo inquadrato è solo una porzione momentanea di quello spazio teorico illimitato che è virtualmente a nostra disposizione (occorre invece ragionare come se la nostra cornice fosse quella di una finestra che risultasse mobile rispetto al paesaggio, al pari del finestrino di un treno in corsa).

* L'inesperto non utilizza quasi mai la possibilità di concepire gli elementi sulla scena come appartenenti a diversi piani o livelli autonomi (suscettibili di muoversi in modo indipendente l'uno dall'altro). E dunque si mostra sovente del tutto incapace di sviluppare la composizione in profondità sfruttando, ad esempio, l'interposizione tra gli oggetti come un importante indizio percettivo per il nostro orientamento nello spazio. Questa lacuna comporta spesso anche un mancato controllo del più generale rapporto figura/sfondo: si evita a priori, insomma, d' interporre elementi in primo piano nelle inquadrature panoramiche quando invece tale scelta potrebbe risultare efficace in molte circostanze. Oppure, si assume acriticamente il colore del foglio di carta usato come se questo dovesse, per uno strano destino, costituire anche il colore di fondo della scena inquadrata.

L'autonomia del progetto

Il progetto può avere un valore autonomo? Esistono esempi di storyboard che possano considerarsi delle opere, dei prodotti compiuti? Non è difficile rispondere a queste domande affermando che, quando il progetto non è inteso in modo riduttivo, come un'operazione puramente tecnica dall'esclusivo significato strumentale, può certo assumere un valore talora persino maggiore dell'opera realizzata, se non altro in quanto documento autografo della fase primaria di un processo creativo. Vorremmo forse negare il valore autonomo delle sceneggiature visive di Moholy-Nagy ? Il fatto che il film Dinamica della grande città sia stato realizzato o meno influisce forse sulla nostra possibilità di considerarne il progetto come uno straordinario esempio di storyboard, o addirittura come l'esempio inaugurale per eccellenza di questo metodo creativo?

Pensare alla fase progettuale esclusivamente in termini transitivi presume, a nostro giudizio, l'adozione di un'ottica limitata da pregiudizi moralistici che rende incapaci di cogliere e apprezzare proprio i fattori germinali e costitutivi della produzione di un'opera. La creatività umana è un po' come l'eros: non si lascia ridurre alla funzione riproduttiva. Prendiamo ad esempio il problema della composizione musicale o quello della progettazione architettonica. Vogliamo forse sostenere la tesi grossolana secondo la quale una partitura musicale è un mero fatto pratico mentre "l'arte dei suoni" comincia ad esistere solo al momento dell'esecuzione?

E che dire di quei compositori che lavorano proprio sul valore sinestetico ed evocativo della notazione "astratta", o meglio basata sull'aspetto grafico-analogico più che sulla materia sonora in senso stretto, che sono forse troppo "concettuali", o magari che sono dei grafici anziché dei musicisti? Diremo lo stesso, ad esempio, di tutti quegli architetti che considerano il disegno un momento decisivo per una costruzione logica dell'edificio (non meno importante della sua costruzione materiale), ovvero per la messa a punto e l'incessante verifica interna dei propri strumenti anche in relazione al linguaggio e alla storia della disciplina entro cui si trovano ad operare?

Per parte nostra, non ci sembra possibile negare la possibilità di assegnare un valore anche intransitivo, una irriducibile componente autoriflessiva, rilevante sul piano critico e apprezzabile sotto il profilo estetico, alla dimensione del progetto, e dunque considerare uno storyboard che ne sia degno anche come un prodotto compiuto, un esito in qualche modo già raggiunto, un oggetto che può dunque dotarsi di una sua peculiare autonomia, persino di una eventuale vocazione utopica, ovvero tale da eccedere, per qualche ragione, la sua stessa fattibilità.

Deformazioni sonore e tessiture acustiche

Nel linguaggio del disegno animato, tra il suono e l'immagine viene spesso ricercato un alto grado di condensazione espressiva, al punto che, come osserva Valenzise, vi sono "...frequenti casi nei cartoons che rendono impossibile o comunque problematico distinguere fra effetti e musica, o fra effetti e voci (...); ogni elemento si fonde creativamente in una tessitura acustica le cui componenti appaiono inclassificabili secondo la tradizionale tripartizione musica, voci, effetti sonori".

L'uso degli effetti nel cinema d'animazione si è sviluppato, in particolare, sul versante della comicità: "Un suono può risultare comico in sé, senza accompagnamento di immagini, se viene riconosciuto dall'ascoltatore come deformazione o caricatura di un suono reale ben conosciuto e memorizzato. Una voce accelerata, con la conseguente alterazione dei toni, risulta comica in sé, anche senza essere accostata ad un'immagine. in alcuni casi, quindi, gli effetti sonori dei cartoons costituiscono vere e proprie trovate comiche in virtù della combinazione fra la deformazione riconoscibile dei suoni reali e il loro accostamento alle immagini"

(Cfr. G. Bendazzi, M. Cecconelli, G. Michelone, Coloriture. Voci rumori e musiche nel cinema d'animazione, Edizioni Pendragon, Bologna 1996.pp.66-69).

Ma possiamo aggiungere che per le immagini e i suoni vale anche la possibilità opposta, quella cioè di ottenere connotazioni espressive di solennità o drammaticità mediante il rallentamento e la decelerazione. L'artista Bill Viola ha raggiunto in alcune sue opere un alto livello di pathos narrativo proprio con questa tecnica. Ricorrendo, infatti, ad un estremo rallentamento della ripresa video in post-produzione, egli ha dilatato, ad esempio, il grido di una bambina, ovvero le tracce visive e sonore della sua evanescente presenza nello scenario spettrale dei sotterranei di una metropoli, evocando così un'atmosfera di forte tensione drammatica, d'intenso impatto emozionale sullo spettatore.

Decalogo operativo

Quali conclusioni, naturalmente provvisorie, possiamo trarre riassumendo quanto abbiamo finora esposto? Proviamo a riassumerle in 10 punti.

1) Il segno a mano libera

Evitare l'errore grossolano di considerare superata la dimensione espressiva del disegno a mano libera e delle tecniche grafico-pittoriche tradizionali. Occorre invece continuare ad esercitare l'azione congiunta dell'occhio e della mano, ovvero, parafrasando Arnheim, del padre e della madre di ogni espressione artistica visiva. Storicamente il disegno rappresenta nel mondo delle arti visive (che un tempo venivano comprese proprio nella dicitura di "arti del disegno") non solo uno strumento creativo elementare, ma qualcosa di più rispetto ad un mero strumento qualsiasi: esso è stato inteso talora come la forma primaria di manifestazione del pensiero visivo.

Con la padronanza del disegno, ad esempio, l'artista rinascimentale ha trovato la possibilità di rivendicare uno statuto teorico, una nuova dignità intellettuale, un ideale margine di autonomia disciplinare all'interno della propria operatività finalizzata. Il termine design testimonia ancora oggi il permanere di questo stretto legame semantico tra competenza grafica e progettualità consapevole. Al punto che il termine composto graphic design apparirebbe quasi ridondante se non fosse giustificato dal riferimento ad un particolare settore applicativo. Sebbene oggi il computer possa tendenzialmente assumere in molti casi, nelle mani del progettista, il ruolo di strumento elementare, una reale competenza nell'uso del computer presume pur sempre che si sappia decidere in quali occasioni tale uso risulta appropriato e conveniente.

L'aspetto paradossale, infatti, è che proprio la diffusione del computer ha comportato un rilancio della "manualità" e l'affermazione di un valore aggiunto del segno a mano libera.

2) Lettere dell'alfabeto

Ricordarsi che la scrittura alfabetica costituisce ancor oggi una delle strutture portanti della comunicazione visiva, e trattarla dunque come tale: essa è il modello di ogni processo di astrazione del segno, tanto più da quando le sue forme si sono coniugate storicamente con le moderne tecniche tipografiche (sia meccaniche che elettroniche), dunque il lettering e la sintesi grafica rappresentano ancora il termine essenziale di riferimento in ogni strategia di visual design.

Occorre forse ritrovare una capacità di stupirsi per l'aspetto enigmatico, diremmo quasi "metafisico" (al pari di un dipinto di De Chirico), che la scrittura può assumere quando si opacizza poeticamente la sua transitività, la sua subordinazione alla sfera dell'utile, alla mera funzionalità informativa. Immaginiamo, sia pure per un attimo, di perdere il codice, la chiave interpretativa che rende trasparente un testo al suo significato convenzionale: insegne luminose tipo Las Vegas, scritte mobili e incisioni marmoree, cartelli segnaletici e targhe di ottone, messaggi promozionali e titoli in video, lapidi e graffiti urbani...tutto ciò potrebbe apparire agli occhi di un ipotetico archeologo del futuro come un corpus frammentario di preziosi "geroglifici"(sacre incisioni) che tanto più sembra riassumere lo "spirito di un'epoca", quanto più se ne sia smarrito il senso immediato, il significato contestuale e letterale, al punto da poterlo leggere, con sguardo straniero, come un'arcana sequela di segni puramente analogici, tracce significanti e tuttavia insondabili.

3) Fotografia e collage

Il vasto e fecondo tema della Foto-Grafia (Albe Steiner) si arricchisce oggi di ulteriori spunti critici legati alle più recenti opportunità tecniche. Il taglio dell'inquadratura è un elemento compositivo essenziale sia per il fotografo che per il grafico multimediale. L'inesperto tende ad eludere la necessità di questo "taglio", a mettere tutto in scena, a non utilizzare le potenzialità comunicative del fuoricampo. A volte, per verificare la leggibilità di un testo, il grafico ricorre all'espediente di coprire (tagliare) la metà inferiore delle lettere. L'inquadratura fotografica impone sempre alla nostra immagine del reale una sorta di analoga prova di riconoscibilità del segno iconico.

Ma in genere l'interesse estetico di una foto sta proprio nell'effetto décadrage (disinquadratura) che produce rispetto alle convenzioni pittoriche, ai canoni tradizionali della rappresentazione figurativa. E occorre saper trasformare questo limite dell'inquadratura in una deliberata selettività dello sguardo. La logica indiziaria del fotografico attraversa tutta l'arte del nostro tempo (Rosalind Krauss). Scrittura "automatica" mediante la luce: il procedimento fotografico ha introdotto la categoria estetica dello straniamento tecnologico, costituendo il paradigma storico di ogni successivo rapporto tra arte e tecnologia. Stampa a contatto, fotomontaggio, collage: le avanguardie artistiche hanno prefigurato l'orizzonte di una scrittura iconica che va ben oltre il più consueto utilizzo in chiave documentaria della fotografia. Oggi, tuttavia, bisogna anche porre il problema etico di un possibile uso disonesto e mistificatorio della manipolazione digitale. L'intervento grafico, insomma, dovrebbe essere palese: il trucco va dichiarato.

(Cfr. Albe Steiner, Foto-Grafia. Ricerca e progetto,  Laterza, Bari 1990).

4) Immagini in sequenza

Il racconto di una storia mediante un numero necessariamente limitato di inquadrature chiave o immagini salienti pone in gioco le ormai consolidate acquisizioni linguistiche del montaggio cinematografico, ma a queste si possono aggiungere quelle ulteriori modalità di transizione tra un'immagine e l'altra che in parte provengono dal cinema sperimentale o d'avanguardia, nonché dalle tecniche d'animazione tradizionali, ma per altri versi presumono ulteriori artifici o effetti retorici introdotti a partire dalle tecniche elettroniche e informatiche più recenti. Il facile utilizzo delle nuove tecniche di post-produzione, al di là degli effetti "perversi" che può aver prodotto in mano a soggetti culturalmente impreparati, consente ad esempio di giustapporre all'interno della stessa inquadratura diverse fasi di svolgimento dello stesso evento, come ha mostrato esemplarmente Greenaway nel suo Dante's Inferno. Chi opera nei media a sviluppo temporale deve dunque conoscere l'intero arco di queste possibilità espressive.

5) Il movimento del corpo

L'importanza del movimento, in particolare di quello relativo all' auto-percezione corporea, quindi al senso cinestetico, tende ad essere sottovalutata da chi opera nel campo della comunicazione visiva. Si tratta bensì di un fattore essenziale anche nel determinare il nostro orientamento nello spazio, dunque il coordinamento e l'efficacia stessa delle nostre azioni. I movimenti e i ritmi corporei rivestono inoltre un ruolo importante nella sfera auditiva o dell'estetica sonora. Lo studio del movimento è ancora oggi una premessa di molte pratiche espressive.

L'arte moderna, una volta acquisita sul piano del sapere accademico la morfologia dinamica del corpo umano (la cosiddetta anatomia artistica), si è potuta concentrare nel '900, grazie al cinema, sul flusso reale del movimento corporeo, all'inizio mettendolo spesso in relazione con le metalliche durezze e la geometrica potenza della metropoli paleoindustriale, ovvero con la cinetica delle macchine (l'universo meccanico dell'industria pesante), in seguito sviluppando una ricerca a partire da quel Fluxus multisensoriale ininterrotto che scorre nel sistema nervoso dell'informazione "in presa diretta", condizione evidenziata oggi esemplarmente, su scala planetaria, dalla versione digitale del dispositivo elettronico, dal carattere sempre più avvolgente dell'ecosfera mediatica. Nell'epoca del cyberspace il discorso appare quasi capovolto: ora sono le macchine ad assomigliare sempre più ad un organismo vivente. In ogni caso, anche nel più recente immaginario dell'animazione digitale, la dimensione del movimento resta sostanzialmente antropomorfa: tutto ciò che si muove in qualche modo ci somiglia.

6) Colore ed emozione

Un aspetto che non abbiamo trattato, ma che va comunque ritenuto essenziale nel determinare la qualità della comunicazione visiva, è quello relativo all'uso espressivo del colore. Le persistenti ricerche in campo pittorico dell'arte odierna restano un importante punto di riferimento anche per il progettista multimediale. L'implicita vocazione espressionistica, chiamata in causa da ogni poetica tendente a privilegiare l'impatto corporeo della sensazione cromatica (coinvolgente in modo palese la più intima sfera emozionale dell'individuo), rispetto alla neutra riflessività del puro concettualismo, ha sempre fatto nell'arte da necessario contrappunto ad ogni rigoroso "primato del disegno" (o della linea) tipico, ad esempio, dell' approccio costruttivista, in quanto interessato più ai sostantivi (l'oggettività delle strutture portanti) che agli aggettivi (sensazioni ed emozioni contingenti, legate a mutevoli risposte soggettive).

La vaghezza del pittorico, insomma, in quanto opposta alla chiarezza del lineare. Ma in pittura il colore è stato pure analizzato con fredda precisione, com'è noto, a partire dal post-impressionismo di Seurat. Scomposto nelle sue componenti primarie alla luce di una visione razionale, scientifica, come quella della moderna psicologia della percezione. Al punto che oggi, del colore, se ne può certo fare un uso assai consapevole: non solo, quindi, come esito di una personale attitudine o sensibilità espressiva, ma come scelta strategica che può essere persino calibrata su presunte attese intersoggettive o sulle esigenze psicologiche di un nostro ipotetico destinatario. Per questo non possiamo che consigliare ad ogni aspirante progettista uno studio approfondito del campo cromatologico (Goethe, Itten, Albers, Lüscher ecc.).

7) Linea del tempo

Non possiamo che richiamare ancora una volta l'attenzione del lettore sulla nozione di  timeline, da noi ritenuta molto importante per definire non solo l'orientamento nel tempo delle sequenze audiovisive, ma anche per le numerose implicazioni teoriche relative a quelle forme simboliche che, nelle diverse culture, segnano le più comuni modalità di rappresentazione del divenire, dunque l'immagine convenzionale della storicità degli eventi (l'idea stessa di "storia") in un determinato contesto antropologico. Che cosa sia il tempo, il flusso del divenire in quanto tale, è certo una complessa questione ontologica, una dimensione originaria dell'esperienza difficile da definire senza uno spazio di riferimento o in assenza di un qualche orizzonte culturale, filosofico (nonché, forse, "poetico") in base a cui orientarsi.

8) Tecniche come linguaggi

Così come le forme della scrittura dipendono anche dagli strumenti utilizzati per scrivere, le nuove tecniche della grafica, benché tendenti alla simulazione delle procedure già collaudate, richiedono l'invenzione di nuovi linguaggi. Occorre non solo fare qualcosa che non sia stato già fatto, ma spesso anche reinventare il modo di fare, ad esempio, trasformando gli eventuali problemi tecnici in opportunità espressive, oppure rinunciando, se è il caso, a delle possibilità tecniche, quando queste non trovano una adeguata giustificazione in termini di linguaggio. Il compito di un autore è allora quello di saper interpretare le inedite potenzialità espressive degli strumenti che, di volta in volta, si trova ad affrontare.

9) Messaggi multisensoriali

Per trarre le opportune conseguenze pratiche dal nostro discorso sulle tre sequenze parallele, suggeriamo di affrontare un tema, un problema comunicativo qualunque, cominciando sempre con l'impostare una mappa delle idee. Al centro della mappa si metterà dunque l'idea-guida, l'argomento da sviluppare. Da questo centro faremo partire tre linee che indicheranno le nostre ormai ben note categorie sensoriali (visiva, auditiva, cinestetica). Le tre linee ci collegano, in sostanza, con tre contenitori (le categorie, appunto).

Da ogni contenitore, che nella mappa può essere rappresentato come un cerchio, si dipartono a loro volta un certo numero di grappoli associativi. In altri termini, lo stesso tema solleciterà in noi una serie di libere associazioni, ma l'importante è sviluppare questi concetti in forme concrete, tenendo cioè presenti le possibili implicazioni "estetiche" per ciascuna delle tre modalità sensoriali dominanti. Solo dopo aver costruito la mappa potremo eventualmente procedere all'impostazione di un percorso sequenziale univoco (come quello, per intenderci, di uno storyboard tradizionale), stabilendo altresì un più preciso parallelismo fra le tre colonne previste dal metodo (video, audio, azioni).

10) L'impronta del soggetto

Ovvero le strategie di auto-rappresentazione: la traccia, il riflesso speculare o la mappa con cui un autore mette in sigla se stesso, anche quando non intende proporre esplicitamente la propria opera come un vero e proprio autoritratto. Ciascuno di noi lascia, che lo voglia o no, le proprie impronte digitali in quel che realizza operando in un certo modo. La messa in scena della singolarità di un soggetto è un tema chiave della ricerca artistica (l'artista si esprime sempre in prima persona, in quanto soggetto idealmente "autonomo"), ma è anche un tema del Design quando si tratta d' interpretare visivamente la "personalità" di una complessa organizzazione (un'azienda, una rete TV, un ente pubblico) come se questa fosse, appunto, una persona.

Nel campo delle strategie di Corporate Design o immagine coordinata, la definizione di cosa sia l'impronta di un soggetto diventa, se possibile, ancora più complicata che nelle pratiche artistiche cosiddette autonome. Problema teorico che il progettista non può ignorare. Egli, infatti, si trova in quella che abbiamo definito una "meta-posizione": non si esprime, come l'artista, in quanto singolo autore, ma per conto di qualcuno o di qualcosa. Tuttavia, anche la soggettività del designer non può non lasciare qualche impronta... 


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