Avere conoscenza della propria forza ma limitarsi alla debolezza,
essere cioè come la confluenza di tutte le acque: questo è 
partecipare all'azione della Norma e ritornare all'infanzia.

Il libro della Norma e della sua azione (Lao Tse)

 
Erano quelli i giorni in cui si trovava a fare un bilancio della sua vita. Ma un bilancio della sua vita implicava automaticamente un bilancio del suo lavoro. Quale era stato fino ad allora? Che cosa aveva fatto? Che cosa aveva costruito? Cosa avrebbe fatto d'ora in avanti?
       L'analisi si complicava perché veniva continuamente sporcata dalla sua capillare e antica insicurezza che l'aveva portato a preferire una non-formazione autodidatta - e come si sa l'autodidatta è colui che più di tutti dubita spesso della sua intelligenza. La sua insicurezza l'aveva spinto dunque su una strada che produceva insicurezza. La premessa del bilancio aveva tutta l'aria di essere un vicolo cieco, insomma.
Sapeva, certo, che erano stati l'educazione, il "vissuto" traumatico a determinare le sue scelte, a decidere per così dire il suo destino di sbandato professionale
       Ma sapeva anche - forse perché lo rintracciava nel suo sé più profondo e più vero - che ogni volta, ciò che da lì (da quel profondo) aveva urlato con tutta la sua forza, era quell'esigenza-urgenza di "non morire senza aver amato tutto". Poteva consacrarsi a qualcosa in particolare e lasciarsi sfuggire tutto - tutto il resto? 
       E certo non bastarono concetti forti come "per essere utili e impiegabili bisogna poter essere individuati" o come "si deve sempre saper fare qualcosa", per convincerlo ad applicarsi in una sola cosa nella vita. "La vera perizia si ottiene con la dedizione esclusiva e durevole" sentiva dire dappertutto. No, si era subito allontanato da quella strada e ne era naturalmente lontanissimo, ora. 
       Non si era trattato di un semplice capriccio. Era proprio una vocazione la sua. Una vocazione al suicidio, pensava ora - un suicidio sociale. 
       Adesso cosa poteva fare per rimediare? 
       Ma non era quella la domanda giusta e non si trattava di rimediare: era convinto di questo. Allora che cos'era il turbamento che lo possedeva? 
       Eppure aveva lavorato sodo tutti quegli anni: non era mai stato con le mani in mano. Aveva investito partendo dal nulla - da nessuna formazione specifica, cioè - in un'azienda, la sua. Una piccola casa editrice nel settore delle nuove forme di comunicazione all'alba della rivoluzione comunicativa. Aveva costruito solidi rapporti, prodotto progetti. Nella sua azienda aveva fatto di tutto: le pulizie, il segretario di se stesso, l'amministratore, il fund raiser, il manager d'azienda, il tecnico, il datore di lavoro, il selezionatore del personale, il creativo, il progettista, il controllore di qualità, ... Molte delle sue energie le aveva inoltre investite nel tentativo di scardinare il concetto di committenza. Tutto il processo, e alcuni segnali di innovazione del processo produttivo della comunicazione, l'aveva nelle sue mani, nella sua memoria, nella sua coscienza, insomma, e ancora più giù: nel suo inconscio, nel suo midollo, nelle sue cellule. 
        Poi, la crisi dopo l'ucita coatta dalla sua società. I forti contrasti con il socio acquisito non seppe risolverli in altro modo che andandosene. 
        E sì che le carte della ragionevolezza era sicuro di averle giocate fino alla fine, ma l'arte della guerra: quella che risulta necessaria quando esistono gli interessi economici, ecco, proprio quella, aveva deciso di non impararla. Aveva scoperto con l'occasione quanto fossero estranei alla sua natura il risentimento, l'odio, la vendetta, la determinazione che occorrono per combattere e vincere su qualcuno. Aveva imparato per differenza/esclusione l'arte stramba di non combattere per i propri interessi particolari. Certo, lottare per conservare quello spazio di edizione e pubblicazione indipendenti, non sarebbe stato propriamente combattere soltanto per i propri interessi: ma che traccia si sarebbe lasciata, dietro, quella lotta? e quanta energia si sarebbe sprecata? 
        Questa astensione e questa sottrazione allo scontro, l'avevano messo del tutto fuori gioco: si trovava ora nella società del profitto del terzo millennio, competitiva e iperprofessionalizzata - almeno sulla carta - subumanizzata, cinica, che doveva passarlo al vaglio: considerare, esaminare, selezionare, e nella maggior parte dei casi rifiutare perchè non possedeva patenti europee, lauree, diplomi di corsi di formazione riconosciuti dalla regione - le carte giuste, insomma. Il suo curriculum non valeva niente, la sua formazione sul campo, inimpiegabile. Quasi quasi stava per crederci anche lui. Al punto, che quando gli capitò un annuncio di lavoro per la ricerca e l'inserimento di dati in un database, solo per quel tropicalissimo mese d'agosto pieno di mille bolle del deserto che scoppiavano sulla città, pur di ottenerlo - per provare a se stesso e al mondo che era "impiegabile" - e non potendo contare sulla forza del suo curriculum, debole anche per un lavoro simile - accettò di farsi sottopagare. 
        Quel mese di lavoro da sottopagato e angariato gli restituì per la verità un pò di sicurezza in se stesso. 
Non avrebbe mai più accettato di assumere la visione che tutti sembravano avere della sua storia professionale. 
In quel mese di lavoro aveva colto con una chiarezza rara, che mai avrebbe potuto lavorare otto ore al giorno, e per di più in un (e per un) processo produttivo del quale non condivideva gli obiettivi. Il prodotto e il processo produttivo dovevano essere eticamente sostenibili, perchè lui potesse lavorarvici. 
        Questa affermazione gli dava insieme coraggio e disperazione. Sarebbe stato difficilissimo trovare un impiego che rispondesse a quei requisiti e del resto non poteva abdicare alla sua vita cercando di sanare il dissidio tra questa e il lavoro. Per lui non potevano essere separati il momento del lavoro e il momento della vita. Vivere per lui era sempre stato lavorare per qualcosa in cui potesse credere e che rendesse la sua vita quotidiana, quella fatta di ore e minuti, possibile, vivibile e degna di essere vissuta. 
        Quando provava ad esprimere questo suo particolare punto di vista, subito si sentiva strano, assurdo, iperbolico, malato di tannerismo. Allora chiudeva la bocca di colpo, ricacciato nella sua obbligata solitudine e nel suo sicuro smarrimento. 
         Era certo, perciò, che se non voleva mentire ritoccando il suo curriculum - e NON l'avrebbe fatto mai - doveva di nuovo rimettersi in gioco e reinventare un altro lavoro. Come aveva fatto in passato. 
         Cercare un' occupazione nel panorama dell'esistente - così defintivamente compromesso e autofagocitante era il mondo lavorativo, ormai - gli avrebbe tolto l'unica vera ricchezza che ancora gli restava: la sua interezza. 
         Doveva ricominciare da zero, e subito anche, e da solo, per giunta, e contro tutti, sembrava. 
         Aveva un disperato bisogno di interlocutori, invece, aveva bisogno di trovare casi simili al suo. Non accettava di sentirsi solo contro tutti. Anche fosse in un altro angolo del mondo, voleva sentirsi sicuro di non essere il solo a intraprendere la battaglia per ridare dignità alla vita e al lavoro.
         Una volta si era già appassionato dei mestieri: mestieri antichi che sparivano e nuovi che facevano la loro prima apparizione. L'aveva fatto per la striscia televisiva che stava sperimentando in una emittente locale. La sua indagine s'era spinta anche fino alla regione ancora inesplorata del no-profit che lo stimolava e gli restituiva un po' di fiducia nel mondo. Ma aveva appena cominciato ad afferrare alcune questioni nodali quando la mancanza di interlocutori seri e la sfuggevolezza di alcuni personaggi chiave, insieme ad alcune circostanze di vita vera reale, lo distolsero dal proseguire l'indagine. 
         Sapeva che il terzo settore, il lavoro che non c'è, il lavoro etico, rimasto per lui ancora un campo inesplorato, si era depositato in lui come un sedimento non del tutto limpido sul quale, non potendo sospendere il giudizio in attesa di completare l'indagine, aveva steso una sorta di pseudo-sospetto: che fosse l'ultima spiaggia degli emarginati della terra, il rifugio di coloro che erano stati "rifiutati" dal sistema "profittevole", e che questi fossero oltretutto le vittime di un enorme raggiro, di un ennesimo sfruttamento: una nuova fetta di mercato da nutrire, conquistare e infine da spremere. 
          Aveva bisogno ora di completare la sua visione: voleva capire se si trovava di fronte alla vera e sana - non-dialettica e non-ideologica - alternativa alle leggi del mercato oppure a una mistificazione che dall'alto veniva comunque fatta rifluire nelle logiche compromissorie e compromesse del profitto.
          Quali potevano essere perciò i suoi interlocutori? Intellettuali puri, veri studiosi di economia non prezzolati, ... chi altri? 
           Ma non voleva correre il rischio di fare ideologie. Cosa voleva, allora? Sembrava a tutti gli effetti un programma raffinatissimo di autoemarginazione, il suo. Oppure una di quelle finissime, fragilissime e solidissime costruzioni dell'intelletto o dello spirito che hanno il compito di fissare talmente in alto l'obiettivo da giustificare un'intera vita consacrata a una lotta sublime. 
           E che cosa ci sarebbe di male, in questo? che si tratterebbe di una finzione? invece quella di  sforzarsi a trovare un ruolo nel sistema di produzione che ha come obiettivo il profitto e che crea bisogni e promuove i consumi/iperconsumi, e dunque sforna addicted (sì, preferisco il vocabolo inglese), drogati, senza cui del resto tutto il sistema crollerebbe; non sarebbe (non è) anche questa, soprattutto questa, una finzione?
            E pensare che dopo il crollo delle torri, e durante la crisi dei consumi - onda d'urto di quello chock mondiale: depressione veramente collettiva - anche lui si era quasi convinto che fosse giusto continuare a consumare a "far circolare il denaro", come dicevano; e dopo l'arrivo dell'euro, quasi contestuale alla caduta delle torri, come a rincarare la dose - anche allora, nonostante le batoste e lo stato d'assedio dei commercianti sui consumatori, che durava tuttora, nel più colpevole dei disinteressi, anche allora, si era sforzato di credere, appoggiando quella stupida formula del dovere di far circolare il denaro. Balle. Silenzioso (ma clamoroso) individuale (ma collettivo) atto di disobbedienza quotidiana verso i consumi "superflui", invece. Chiuderanno, certo, i numerosi warner village che vendono la settima arte, e le consumazioni annesse, a carissimo prezzo. Cesseranno le coazioni agli acquisti, alla vacanza, alla cena fuori, quando saremo costretti a comprare abiti per tutti i giorni di scarsa qualità a prezzi impraticabili, quando le uniche offerte turistiche saranno i costosi villaggi con animazione omologata e coatta o i centri di benessere che vendono l'illusione aberrante di recuperare serenità e distensione; quando i cibi nei ristoranti saranno pessimi piatti solo ben guarniti e costosissimi. Quando finalmente tutti si sentiranno EVIDENTEMENTE presi in trappola. Cesseranno, no? 


Non era già un vero e proprio programma di lavoro, questo suo bilancio? E non aveva già iniziato a svolgerlo?