La Critica

L'utopia dell'arte contro la mediocrità delle emozioni

Intervista a Harald Szeemann, curatore della «Biennale di Venezia 49. Esposizione Internazionale d'Arte»

di Caterina Falomo

 

Harald Szeemann nasce nel 1933 a Berna e vive a Tegna (Ticino, Svizzera). Direttore della Kunsthalle di Berna dal 1961 al 1969, è dal 1969 organizzatore indipendente di mostre in alcune tra le più importanti città del mondo. Direttore di Documenta 5 a Kassel nel 1972, è stato co-organizzatore della Biennale di Venezia nel 1980, occasione in cui ha concepito Aperto, la sezione espositiva dedicata agli artisti più giovani. Dal 1981 è curatore autonomo permanente al Kunsthaus di Zurigo e per il quadriennio 1998-2002 è direttore della sezione Arti Visive alla Biennale di Venezia.

CATERINA FALOMO: Io partirei dal nome che è stato scelto per questa Biennale: «Platea dell'umanità», intesa nel senso di piattaforma da cui guardare l'uomo per cercare ciò che gli appartiene nel modo più autentico. Il nome può far riferimento anche all'idea di teatro, dove il "medesimo" osserva l'altro da sé e in qualche misura vi trova il riflesso della propria identità. Ecco la domanda: Che cosa vede l'artista di questa Biennale? Che cosa trova in questo suo osservare a 360 gradi?

HARALD SZEEMANN: È stato scelto questo titolo, perché è questa la dimensione che vogliamo dare a tutta la Biennale; questa diventa una platea dell'umanità perché ci sono tutte le arti, non solo le arti visive in senso stretto. Osservando la scena artistica di oggi si vede che finalmente più o meno tutti i giovani si occupano di nuovo dell'uomo e del suo comportamento. E dunque questa dimensione che definisco "platea dell'umanità" è affermata proprio dagli artisti di oggi. Ad esempio, già Beuys evocava sempre l'idea che ogni uomo è un essere creativo. Ecco allora che, proprio con questa abbreviazione ideologica secondo la quale tutti gli uomini sono artisti, dunque sempre potenzialmente creativi e, quindi, che il nostro vero capitale è la somma di tutte le creatività individuali, si vede qui la differenza fra quella utopia sociale e questo rinnovato interesse per casi speciali di comportamenti umani. Percorriamo così quest'arco tremendo che inizia dalle utopie nate alla fine degli anni '60 e giunge fino a questa produzione artistica di oggi che si rivolge di nuovo all'essere umano.

CATERINA FALOMO: Ma con l'ulteriore pretesa di cercare qualcosa d'altro?

HARALD SZEEMANN: Cosa vuol dire cercare qualcosa? Tutti gli artisti cercano sempre qualcosa, da quando ancora c'era quel rissoso confronto tra le arti figurative… dunque l'arista che viaggia, che cerca l'Oriente, che cerca una cosa pittoresca da dipingere e gli uomini che sono in questi paesaggi. C'è un po' il ritorno a questo, ma oggi ogni cosa avviene tramite il mezzo elettronico perché così si può osservare il comportamento, il cambiamento del comportamento, il cambiamento delle costellazioni di un gruppo nel tempo; naturalmente tutto quello che è sperimentale continua, ho visto talmente tanti video da ritenere che, come negli anni '60 c'erano grandi cambiamenti nella scultura e nella pittura sperimentali, si può oggi marcare un nuovo punto di partenza molto denso di cambiamenti, per cui abbiamo invitato alcuni artisti di questi anni.

CATERINA FALOMO: Cioè accostando un po' ciò che è già stato "storicizzato" all'arte delle nuove generazioni?

HARALD SZEEMANN: Sì, anche perché sono generazioni che non conoscono più quella particolare tensione utopica degli anni '60. Mancanza di utopia, di idealismi… oggi infatti si parla spesso di una fine delle utopie, ma l'utopia è sempre stata messa in equivalenza con tutto quello che non andava: comunismo, socialismo, ecc. Mentre l'utopia artistica non può mai realizzarsi perché presuppone una società completamente nuova, ideale, che come tale non avremo mai. Dunque l'utopia come motore di un'immaginazione, questo è sempre ancora possibile, no?

Però anche l'arte così intesa presume sempre un individuo che esprime quello che sente, compreso un certo modo di relazionarsi a quello che chiamiamo globalizzazione: ci sono tante sfumature, alcuni cercano la loro provenienza, come molti asiatici che sono venuti dall'Est, o concentrano quella che si potrebbe definire la crudeltà cinese in un video, o cercano piuttosto di dare la loro visione di una colonizzazione, o di altre condizioni simili, oppure vedono un'immagine che per loro è molto importante, come quella di un poverino nel duomo di Milano… ecco, tutto è possibile: o c'è l'amore della carne, o c'è l'amore dei robot…

Per me è sempre stato interessante cercare di capire cosa ci succede intorno; sono 44 anni che curo mostre, quindi ho vissuto abbastanza i cambiamenti, dall'idealismo al cinismo, poi alla nuova ricerca di radici. Poi c'è stata questa estensione geoculturale che abbiamo voluto mostrare due anni fa in dAPERTutto, dove abbiamo, per la prima volta in una grande collettiva, mostrato gli artisti asiatici come artisti autonomi, dello stesso rango dei colleghi occidentali, sciogliendo anche il padiglione nazionale italiano per dare loro la possibilità di confrontarsi direttamente con i loro colleghi internazionali.

CATERINA FALOMO: Quindi, appunto, Oriente e Occidente che si incontrano, si scontrano, si verificano l'un l'altro anche nell'arte.

HARALD SZEEMANN: È proprio così: in questo momento c'è appunto questo interesse verso l'essere umano in quanto tale, e non è una tendenza "stilistica", bensì una preoccupazione di portata più generale.

CATERINA FALOMO: E lei questo fatto lo valuta come positivo o negativo? In altri termini, questa apertura al confronto può portare a una perdita delle proprie radici, del proprio senso di appartenenza rispetto a un luogo o ad una cultura determinata, oppure è uno scambio fecondo, un'apertura dello sguardo che può favorire ulteriori sviluppi?

HARALD SZEEMANN: Si vede precisamente che, se questo rinnovato interesse per l'uomo comporta anche un occuparsi in maniera diversa dei problemi legati all'ambiente in cui egli si muove, allora vale forse quello che ho già detto due anni fa a proposito delle opere di Hirschhorn, il quale ha fatto vedere l'aeroporto in termini di globalizzazione illusoria, perché tutte le città sono "scritte" dalla stessa altezza ma, per altro verso, le compagnie aeree sono di diverse nazioni, quindi si ricade di nuovo nel nazionalismo… ecco, ad esempio, gli austriaci affermare con un certo piacere che Swiss Air va male, come ho letto la settimana scorsa a Vienna.

Se Schroeder propone, diciamo, un potere centrale un po' più grande per l'Unione Europea, vedi subito come ciò venga inteso e discusso in termini di attacco all'autonomia delle nazioni, dei singoli paesi. Purtroppo, per poter funzionare, tale "unione" dovrebbe trovare una linea comune un po' più generale, no? Lei dunque vede che ultimamente centralismo e federalismo sono ancora, pur sempre, problemi fondamentali. E si ripete spesso che se l'Europa diventa veramente un'unità, nello stesso momento, come per una sorta di "controtendenza", non si avranno tanto i paesi o le nazioni, quanto piuttosto le "regioni", che sono poi storicamente sempre esistite.

CATERINA FALOMO: Probabilmente si accentuerà il nazionalismo forse in senso negativo, estremo quasi…

HARALD SZEEMANN: Qui in Italia, ad esempio, c'è il Trentino Alto Adige, ovvero una cultura austriaca nello Stato italiano… così come in Svizzera il Ticino, la Svizzera francese, la Svizzera grigionese di lingua tedesca…o in Scandinavia la Lapponia, cui si deve dare una certa autonomia, come del resto l'Unione Sovietica che si è spaccata in tanti paesi…

CATERINA FALOMO: … che magari non sanno come rendersi autonomi anche in senso culturale…

HARALD SZEEMANN: Eh, sì, ma fino adesso non era la cultura la vera preoccupazione primaria, ma il soppravivere. Naturalmente, in questo momento in cui torna l'interesse all'uomo, è chiaro che torna attuale anche la questione del mezzo: come un tempo si sosteneva che la fotografia avrebbe reso il ritrattismo non più necessario, così adesso gli artisti cominciano ad occuparsi per una certa frazione di tempo di fenomeni analoghi…per esempio, assistiamo alla messa in movimento di quello che abbiamo sempre visto nella fotografia di reportage. Anche la pittura, dunque, se vuol essere figurativa, deve reagire in un'altra maniera, deve cercare di combinare questo particolare "realismo" dello sguardo con qualcosa che oggi non si lascia tanto dipingere quanto piuttosto realizzare con mezzi elettronici.

CATERINA FALOMO: Cioè deve cercare una nuova ragion d'essere per dimostrarsi non più solo figurativa in senso tradizionale…

HARALD SZEEMANN: È quello che ho sempre detto. Ecco allora il senso della mia posizione in merito alla nota polemica con Jean Clair, il quale nel 95 voleva restaurare una tradizione figurativa nell'arte lasciando fuori tutto quello che non era figurativo. Quell'approccio non mi è mai interessato, perché penso che la libertà dell'espressione e l'intensità dell'impegno di questo individuo che chiamiamo artista trovino sempre il loro particolare mezzo per esprimersi.

CATERINA FALOMO: Anche perché sarebbe un errore, diciamo, cercare di frenare quello che sta succedendo, ossia l'evoluzione dei mezzi tecnici. Sarebbe un po' rinchiudere l'arte entro confini dati a priori: dev'essere invece l'artista stesso a scegliere, a cercare di usarli o meno…

HARALD SZEEMANN: Sa, oggi ho letto un'intervista con il capo della Nestlé, la più grande ditta di nutrizione…insomma, c'è il grande problema degli alimenti geneticamente modificati: in America non c'è la prescrizione di marcare il prodotto, in Europa si deve invece farlo poiché in alcuni paesi si è obbligati da apposite leggi. Lui dice naturalmente che per nutrire miliardi di persone non si può fare a meno di questa "cultura genetica" perché la superficie terrestre dedicata all'agricoltura si restringe sempre più. Ecco, io direi che questa visione di una grande impresa multinazionale, proposta naturalmente sempre tenendo d'occhio gli azionisti…, all'artista in qualche modo interessa solamente sul piano personale: sì, magari decide pure che tutto va bene, che possiamo mangiare così o in un altro modo; ma è chiaro che, se poi va in certe regioni del pianeta per cercare il suo "soggetto", si trova pur sempre a confronto con gli effetti: dunque lui parte dagli effetti o si muove alla ricerca di un paradiso perduto; oppure cerca la possibilità di un futuro che non conosciamo. E dunque qui si vede una differenza di atteggiamento. Ma poi l'individuo comune è sempre come si legge oggi sui giornali italiani, dove c'è sempre una grande volubilità o pluralità di opinioni, per cui se uno dice qualcosa oggi, domani risponde un altro con una diversa opinione. Dunque non c'è più un'omogeneità e io penso che gli artisti riflettano abbastanza bene tale condizione.

Questa disomogeneità non è forse ancora per noi la grande possibilità di avere un mondo sempre più pittoresco? Il turismo di cosa si nutre? Quando vedo arrivare tanta gente la mattina a Venezia e scopro che poi la sera va a Siena, poi da Siena a Firenze, penso che è destinata perlopiù a non vedere niente. Ecco invece che l'artista, nella presente situazione storica, cerca di opporre a tutta questa «mediocrità delle emozioni» un diverso taglio emozionale. Egli può permetterselo in quanto individuo che riflette lo Zeitgeist, ovvero la propria spiritualità, ovvero l'intensità della sua visione delle cose.

CATERINA FALOMO: Quella dell'artista, dunque, è una delle poche voci che possano farsi udire oggi…

HARALD SZEEMANN: Eh sì, una delle poche voci, o meglio: ci sono altri che hanno le voci del potere, ma gli artisti hanno la voce della poesia, del grido, o la voce della solitudine…

CATERINA FALOMO: Be', è un modo per attirare sicuramente l'attenzione molto più forte di altri, perché l'artista, anche se rimane inascoltato, può pur sempre esprimersi, comunicare a tutti la sua idea, mentre in un altro ruolo sarebbe forse anche lui destinato al più ordinario disincanto…

Ma veniamo alla seconda domanda - anche se riferita ad un tema cui in qualche modo ha già fatto cenno - alludo all'incontro tra culture, al multiculturalismo, un tema che non può non assumere oggi una particolare rilevanza nel contesto della cosiddetta globalizzazione; c'è chi, come ad esempio il filosofo Gadamer, sente la necessità di un dialogo tra tutte le culture e le religioni e chi invece, come ad esempio Cacciari, mette in guardia dai pericoli del sincretismo, ovvero da ogni superficiale mistura policulturalistica. Quale messaggio vuole trasmettere dunque la Biennale al vasto pubblico rispetto a questo tema?

HARALD SZEEMANN: È chiaro che, come sempre, occorre il dialogo e il confronto diretto con l'artista. Quando c'è il contatto con l'artista si cerca insieme di potenziare il suo messaggio al massimo, anche attraverso una dimensione che si perde dopo la fine della mostra, in quanto è connessa alla particolare dislocazione delle opere nello spazio. Dunque attraverso la dimensione dello spazio questo messaggio diventa più erotico, più impressionante di quando lo si vede solamente nel monitor o alla televisione, dove tutto scorre. Una mostra vuole dare il peso a questa voce: è chiaro poi che si cerca sempre di andare ai limiti. Ciò presume l'incontro attraverso l'estensione delle intenzioni, ma Cacciari in questo senso ha ragione: occorre stare attenti a non mescolare tutto. Del resto, quando si tratta di individui, si vede molto bene che, anche qualora si volesse fare una specie di "mondo contemporaneo" della durata di cinque mesi, ci troveremmo comunque di fronte ai limiti pratici di questa miscela: ad esempio, quest'anno abbiamo invitato alcuni poeti e alcuni cineasti, ma naturalmente per i cineasti si rende necessaria una riduzione dell'espressione nel tempo, un diverso formato, altrimenti si fa di nuovo un film che si può vedere solo al cinema, dove è certo molto più comodo stare seduti per due ore. Lo spazio e il tempo sono dunque regolatori incredibili di questo "convivere" per cinque mesi.

CATERINA FALOMO: In alcune interviste da lei rilasciate ha dichiarato che il suo scopo è fare mostre che rimangano nella testa, che cambino il cervello della gente. Come pensa che questa Biennale possa cambiare il cervello della gente?

HARALD SZEEMANN: Io penso che ci siano appelli molto forti in questa mostra, come ad esempio la scultura di Serra che è già installata… Poi se ci poniamo la domanda circa il destino dell'artista, se il suo lavoro debba piacere ai suoi contemporanei, o piuttosto debba salire sul trenino del futuro... Forse si cerca sempre di lavorare per il trenino del futuro. Ecco, sono anche queste per noi possibili lezioni sul fallimento: l'arte accetta la dimensione del fallimento, è formidabile, no? Va bene, leggiamo tutti sul Nasdaq che per le più famose ditte di computer del mondo le azioni sono scese, salgono e scendono: d'accordo, anche loro parlano di fallimenti, ma è sempre una questione misurata in temini di denaro, mentre qui il fallimento riguarda piuttosto un'idea di "bellezza".

Un artista non vuole vendere un quadro ma un sistema che all'occorrenza ognuno potrebbe sfruttare.

CATERINA FALOMO: In particolare, che impressione ha ricevuto dalle opere dei più giovani?

HARALD SZEEMANN: L'impressione è che loro devono in assoluto avere la maggiore presenza in questa Biennale. Da tale presenza dipende anche il futuro di tale istituzione. Sa, io dico sempre che se vado a vedere la Biennale di Berlino o di Istanbul trovo sempre 40, 50 artisti che, o conosciamo già, oppure sono nuovi, ma la Biennale di Venezia può compiere questo tremendo arco storico attraverso la propria capacità di "rivedere" il già detto, per esempio, attraverso la pittura degli anni 70, che si confrontava con i grandi pittori del passato (come quando ci si proponeva di vedere Tintoretto con un occhio diverso); così, adesso, attraverso questi giovani, si ripensa all'ultima rivoluzione nell'arte della fine degli anni 60 con un occhio diverso, dove un artista per eccitare la fantasia del consumatore si dava dei vincoli (per esempio Beuys non ha usato colori perché intendeva lasciare che la gente si facesse un'idea dei colori con la propria testa).

Ecco, mi sembra talmente interessante questo alludere, attraverso una messa in dubbio dei mezzi di espressione tradizionali, ad una fantasia che possa "vedere oltre" quello che comunemente si vede, al punto che, forse proprio per questo, adesso non c'è una "rivoluzione" vera e propria, in quanto la narrazione odierna, o meglio l'immagine in presa diretta sulla realtà, ci lascia la possibilità di riflettere sul perché le cose stanno così: «pensateci, c'è ancora qualche altra cosa dietro il puro fenomeno, non posso certo forzare la gente a vedere, posso aiutare le persone a cambiare atteggiamento, ma non si può pretendere di farlo ad ogni costo».

È per questo che, a mio avviso, ci sono tanti "appelli"... E forse anche questa mostra rimarrà nella testa di qualcuno... Quando mi è stato proposto di curare questa mostra, nel contratto c'era quasi la richiesta di una mia garanzia a priori che almeno il 50% dei visitatori avrebbe per così dire ottenuto un "cambiamento" dopo aver visto la mostra. Naturalmente ho detto subito che non potevo offrire una simile garanzia . Se penso alla città di Berna, dove ho fatto tante mostre, la risposta sul momento era a volte piuttosto negativa, spesso prevaleva un atteggiamento di rifiuto da parte del pubblico. Ma oggi, quando ci vado, le stesse persone mi dicono che finalmente (a distanza di molti anni) hanno capito qualcosa... io sono contento così. Ecco il trenino del futuro.

CATERINA FALOMO: Il problema è probabilmente costituito dalla molteplicità degli input che ci sono oggi... le cose che vediamo scorrono sempre…

HARALD SZEEMANN: Eh sì… c'è una tale saturazione di immagine…

CATERINA FALOMO: … per cui anche il messaggio spesso scivola via…

Venezia, 13 maggio 2001



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