Mario Sasso e la sigla TV

di Enrico Cocuccioni
 

Poiché il mio scopo è affrontare in termini didattici e in chiave metodologica il tema del progetto grafico  visto soprattutto in relazione alle nuove forme di scrittura audiovisiva  e di comunicazione multimediale, mi sembra opportuno chiamare in causa un autore che può vantare ormai una lunga esperienza circa i prodotti più qualificanti e impegnativi della grafica televisiva.

Un videodesigner che ha trovato nell'uso dei linguaggi del video e del computer, messi a reagire con quelli della pittura e delle più o meno tradizionali tecniche artistiche, una personale cifra  espressiva, un discorso visivo-cinetico  peculiare e inconfondibile, una linea di ricerca che ha ormai prodotto risultati di riconosciuto valore.

Partiamo dunque da una conversazione con Mario Sasso, la cui vicenda personale coincide quasi con la storia stessa della videografica d'autore in Italia e con l' emancipazione creativa della sigla TV dal suo banale compito didascalico e introduttivo - privo di autonomia e dunque ritenuto irrilevante sul piano della riflessione critica - ovvero dal vecchio ruolo corrente di mero supporto illustrativo per le titolazioni di un programma.

L'obiettivo delle mie domande è quello di capire, in base ad una diretta testimonianza di chi ha vissuto in prima persona questo "riscatto" artistico di un genere minore  (la sigla TV, appunto), legato pur sempre alla routine  di un mestiere, in che modo l'eventuale "autonomia estetica" del progetto videografico possa misurarsi in termini originali con le vincolanti esigenze della programmazione quotidiana di una rete televisiva.
 

Mario Sasso è nato a Staffolo (AN) nel 1934. Vive a Roma dove lavora come artista impegnato sia nel campo della pittura che in quello dell'uso espressivo delle tecnologie multimediali e delle installazioni video. La sua lunga esperienza nel settore delle sigle videografiche e della "impaginazione" dei programmi televisivi gli ha consentito inoltre di pervenire ad una rara sintesi operativa tra la sua personale poetica, elaborata soprattutto in termini pittorici (concentrata per lo più sul tema dell'immaginario metropolitano), e le applicazioni più tipiche del Media-Design, dunque di una ricerca ben più disponibile, per così dire, a contaminarsi con il kitsch, finalizzata com'è alle esigenze produttive di un apparato, pur sempre industriale, il quale persegua in primo luogo gli obiettivi puramente quantitativi della comunicazione televisiva di massa. Ma l'approccio di Mario Sasso alla grafica televisiva presume, appunto, una profonda assimilazione della capacità dell'arte moderna di esplorare senza pregiudizi le contaminazioni iconiche della metropoli contemporanea, dunque di "sporcarsi le mani" anche con gli stereotipi del quotidiano (si pensi alla lezione della Pop Art). Le sue sigle televisive, alcune sicuramente molto note, possono infatti considerarsi a pieno titolo dei prodotti d'autore. E inserirsi così, con un ruolo tutt'altro che secondario, nel quadro complessivo del lavoro svolto in campo artistico. Negli anni '80 egli ha concepito le prime sigle tridimensionali interamente realizzate in Italia (TG2 e TG3 della Rai). Negli anni '90 ha curato l'art direction delle prime emissioni satellitari della TV italiana (RaiSat e RaiAmerica). Ricordiamo qui alcune sigle famose tra le oltre 150 che ha realizzato: Grandi Mostre (1986), La Notte della Repubblica (1990), Viaggio nel Sud (1993), nonché il video FootPrint (che oltre ad aver inaugurato le trasmissioni via satellite della Rai, ha ricevuto nel 1990 il prestigioso riconoscimento internazionale del primo premio al Festival Ars Elettronica di Linz.
 

EC: Partiamo dal fatto che hai una lunga esperienza nell'ideazione di sigle televisive e che sei stato anche impegnato come designer in un lavoro di coordinamento d'immagine (RaiDue, RaiSat, San Marino TV), riuscendo nello stesso tempo a portare avanti una ricerca autonoma... come autore indipendente, insomma, anche quando lavoravi alle dipendenze della Rai. Ti chiedo, in sostanza, di rivelarci il "segreto" di come sei giunto ad una sintesi tra questi ruoli diversi che non è certo facile coniugare... In particolare, vorrei sapere quali consigli daresti ad un giovane che volesse raggiungere un simile obiettivo. Poi desidero anche soffermarmi con te sulla funzione del progetto, dello storyboard, dato che molti potrebbero chiedersi come si fa a prefigurare una complessa integrazione dinamica tra immagini e suoni, facendo peraltro conto sull'uso consapevole e pertinente dei più recenti strumenti tecnologici.

MS: Apparentemente si tratta di un lavoro molto complesso. In realtà come spesso accade, le cose sono molto semplici. Nel senso che uno si guarda prima dentro e cerca di comunicare con le formule che gli sono più congeniali. Quindi la ricerca personale e quella applicata finiscono per basarsi sullo stesso metodo. Non ci sono due formule diverse: c'è un modo, una sensibilità per capire quali sono i tuoi bisogni espressivi. E una conseguente capacità di applicare tale metodo ad una determinata forma di comunicazione. Questo avviene in molti campi: sappiamo ad esempio che un regista può essere, nello stesso tempo, impegnato sia come autore cinematografico che come realizzatore di spot pubblicitari. Questo rapporto tra un lavoro su commissione e un lavoro autonomo, dal punto di vista della creatività, della ricerca, non è poi così conflittuale come a volte si pensa. Le stesse idee possono confluire in diverse tecniche realizzative, da quelle più tradizionali a quelle tecnologicamente più recenti e sofisticate. Il problema reale è quello di non limitarsi ad applicare delle regole generiche, accademiche... come dire: delle formule "scolastiche" buone per tutti gli usi. Occorre bensì cercare delle regole personali. Ciascuno deve chiedersi quali sono le motivazioni interiori che lo spingono a fare questo mestiere...

EC: La vocazione...

MS: Certo, la vocazione. E poi bisogna essere anche un po' testardi, avere una grossa determinazione nel fare delle cose, perché si può andare incontro a molte delusioni, però questo non deve far desistere dall'affermare le proprie idee. Sicuramente i progetti vanno applicati a delle tecniche. Non c'è dubbio, ad esempio, che le sigle televisive più riuscite, almeno per quella che è la mia esperienza, presumono in genere un committente "intelligente", ovvero che non chieda di svolgere un "compitino", che non abbia troppi pregiudizi circa la capacità del pubblico di recepire anche un messaggio non banale. Certo, esiste per ciascuno di noi una forma di autoregolamentazione: sappiamo che occorre comunicare con una grande massa di telespettatori. Mentre invece, nel fare una mostra d'arte, il problema della comunicazione è meno pressante, sebbene per me esista ugualmente. L'importante è rimanere se stessi e adottare questo principio, diciamo, della "poetica". Se hai una poetica la devi affermare comunque. Anche al di là dello strumento che usi.

EC: Dunque, anche nell'uso delle nuove tecnologie...

MS: Nello specifico della comunicazione elettronica alcune regole ci sono: quando si progetta, oltre alle cose da dire, bisogna tener conto delle possibilità dei mezzi, delle macchine che possono essere più o meno adatte alla realizzazione delle proprie idee. Bisogna inoltre sapersi avvalere della collaborazione di altri professionisti. Ci sarà bisogno di tecnici. Ci sarà la musica, dei testi, la necessità di tener conto di una linea editoriale...Certo, una sigla è come la copertina di un libro, ma potrebbe essere anche intesa come un prodotto non direttamente ancorato ai contenuti della trasmissione, basta che ci sia un "sincrono" concettuale con lo spirito del programma...

EC: Non trovi che in mano a persone inesperte le attuali tecnologie comportino talora una maldestra sopravvalutazione del ruolo della macchina rispetto a quello del progetto? Nonché, per altri versi, che le strategie di marketing applicate alla comunicazione televisiva tendano oggi a privilegiare le formule operative più scontate e prevedibili, le soluzioni ritenute a priori più efficaci proprio in quanto "prefabbricate", dunque rassicuranti...

MS: Questa idea è anche molto diffusa...che le macchine possano determinare delle soluzioni automatiche senza bisogno di alcun progetto. Questo è un grosso errore. Puoi scoprire un nuovo effetto: ma si tratta appunto di un effetto. Con il progetto non c'entra niente. Io ho spesso bisogno della collaborazione di chi lavora specificamente sull'hardware, perché a volte il mio progetto va ben oltre le possibilità di realizzazione previste in un primo tempo. Ho bisogno, cioè, di una sistematizzazione della procedura realizzativa. E questo presume l'apporto di altre persone. Dopo di che io mi sono arricchito perché ho lavorato con gli altri, e spero che ciò sia reciproco: in fondo, spesso ho posto ai tecnici un problema che all'inizio poteva sembrare utopico, ma che invece in seguito ha trovato una soluzione proprio grazie ad una abilità tecnica.

EC: Ecco dunque un altro consiglio prezioso...quello di concepire il progetto anche con quel tanto di azzardo, di lucida "utopia"...

MS: Io penso che chi progetta debba avere sempre uno slancio utopico. Nel senso che non bisogna basarsi sul già fatto, o magari autolimitarsi per un eccesso di realismo. Probabilmente sarà necessario, in seguito, ridimensionare l'ipotesi iniziale, ma senza una rinuncia sostanziale a quanto è prefigurato dal progetto. La cosa si farà comunque: forse non con gli strumenti previsti in un primo tempo. E in questo un buon tecnico può essere di grande aiuto. Spesso c'è infatti uno sforzo collegiale per far funzionare la mia proposta. In questi anni abbiamo imparato che i condizionamenti legati alle presunte capacità di comprensione del "target" a cui ci si rivolge, sono spesso basati su pregiudizi infondati: quando una cosa è autentica e contiene un elemento poetico "arriva" comunque. Ben diverso, invece, è il vincolo rappresentato dal budget disponibile. Il costo è una cosa importantissima di cui occorre tener conto fin dal primo momento. Tu puoi avere un'idea semplicissima e farla arrivare senza particolari difficoltà, ma a volte hai bisogno di mezzi che vanno ben oltre il normale standard produttivo. Quindi consiglio ai giovani quello che forse a suo tempo hanno consigliato anche a me, cioè di sviluppare con molta determinazione le proprie idee e la propria visione della vita. La distinzione tra arte applicata e ricerca pura  non va presa come un modo per azzerare il problema della committenza. Esistono esempi eccelsi nel campo dell'arte di un felice rapporto tra artista e committente. Naturalmente non tutti i committenti sono uguali. Ce ne sono di più o meno intelligenti. Il confronto con una committenza è certo anche fatto di compromessi, ma credo che si debba comunque avere in testa , ripeto, l'utopia del progetto.

EC: Chiaramente anche la mia è una specie di utopia, di sfida impossibile: chiedere ad un autore ormai affermato di rivelarci in poche battute tutti i "segreti del mestiere"...

MS: Non c'è dubbio che quello che mi chiedi ha il sapore di una sfida. Così come avviene nelle accademie e nei licei artistici, in tutte le scuole cosiddette di arte applicata c'è bisogno di sviluppare le proprie idee anche attraverso il lavoro manuale. Quando noi parliamo di laboratorio è perché le regole astratte, le teorie didattiche, non bastano: occorre avere le mani in pasta, sporcarsi le mani con la produzione vera e propria. Nel caso dell'elettronica, ad esempio, occorre toccare con mano quali sono le potenzialità di un computer. Lavorare con una macchina che costa dieci milioni non offre ovviamente le stesse possibilità di una che ne costa cento. Questo non lo s'impara solo attraverso un racconto, ma scoprendolo per esperienza diretta. Molto importante è anche poter interagire con altri professionisti: tecnici, musicisti, montatori...
Bisogna comunque avere una grossa motivazione individuale: è possibile, infatti, che un giovane si lasci intimorire proprio dalla grande diffusione odierna di immagini spettacolari ottenute con le tecnologie più costose ed esclusive. Vedendo uno di quei film americani pieni di effetti speciali ci si può sentire "schiacciati" pensando ai mezzi di cui si può disporre in mancanza di enormi capitali o di una grande organizzazione produttiva. Ma c'è un'altra forza a cui si può ricorrere che è quella della poesia...

EC: Ecco un altro argomento di cui dovrò tener conto nella mia raccolta di materiali teorici. Penso proprio che la questione della poeticità  sarà da segnalare al lettore in tutta la sua portata, come un problema critico ineludibile o, addirittura, come il necessario riferimento problematico da porre a conclusione di questo libro, ovvero come il doveroso interrogativo finale di un discorso che potrebbe altrimenti essere inteso come una eccessiva enfatizzazione della tecnica e delle metodologie razionali...storicamente improponibile oltre che ingenua...

MS: Anche un lavoro "povero", insomma, può avere una sua capacità d'imporsi. Se invece si pensa di essere in concorrenza con quel tipo di prodotti, non resta che trasferirsi là dove è possibile, per così dire, combattere ad armi pari sullo stesso fronte. Non credo che le nuove tecnologie sopprimeranno del tutto le tecniche tradizionali. Quello elettronico è solo un linguaggio fra i tanti. Se non lo si trova congeniale con le proprie attitudini si può anche non usarlo. Ma se invece si capisce che questo è proprio lo strumento che si vuole adoperare, occorre cercare di procurarsi gli strumenti adatti. E se non ce l'hai in casa , vorrà dire che dovrai giocare fuori casa...

EC: Ma non potrebbe il progetto stesso, ovvero lo storyboard, essere anche inteso, in qualche modo, come un prodotto "autonomo"?

MS: Lo stimolo che può dare una committenza è sempre molto forte. Anche Giotto credo che ad Assisi abbia fatto uno storyboard prima di mettersi a fare gli affreschi. Nel senso che ha comunque fatto dei bozzetti. Quando invece ti nasce la necessità isolata di fare un progetto e questo rimane lì perché a nessuno interessa... beh! Io stesso ho ancora "Le città continue", uno storyboard lungo nove metri, rimasto irrealizzato...E per me, a questo punto, il problema di realizzarlo non è così essenziale. Mi sento comunque soddisfatto di aver concepito quel progetto, di aver svolto un lavoro che potrà forse un giorno tradursi in un video, ma che per me è comunque un'opera compiuta.

Roma, 2 febbraio 1998

[indietro]  [index]  [avanti]