La Critica

Universo tecnologico ed arte

di Domenico Scudero
 

Nascosta dietro una spessa coltre di significati, magari impoverita da un colpevole "criticismo" di maniera, l'arte contemporanea non è mai strumento spericolato della tecnica: è al contrario, specularmente, primitiva, come può esserlo in definitiva qualcosa che all'interno della tecnica deve esisterci. Sebbene camuffata da ipertecnologia quest'arte contemporanea non ha mai la piena percezione di cosa sia realmente la tecnologia, o probabilmente non ha necessità di saperlo. E perché poi dovrebbe?

Semplicemente, si dirà,  per non essere figlia amorfa di questo tempo, trascinata parassitariamente nelle viscere di una realtà di cui non si ricostituiscono le relazioni logiche (1). Eppure a volerla analizzare con disciplina critica, quasi come dire scientifica come lo storico può intendere la critica, quest'arte contemporanea ha un assoluto bisogno della tecnica per poter dire di appartenere ad un contesto: quello della tecnica, l'universo della tecnica, il mero presente contemporaneo.

All'interno delle manifestazioni  periodiche e biennali, quest'arte istituzionalizzata dal mercato, quest'arte che ha per valore quello della valutazione e per critica l'elenco dei collezionisti, si descrive geograficamente attraverso l'uso smodato di questa prassi universale: la tecnologia diviene un dettaglio,  ma serve a descrivere una disciplina che vuole a tutti i costi preservarsi dall'oblio (2). Una tecnologia vissuta come "avanzo", comperata ai discount facendo la fila insieme ai ragazzini vivi solo per i giochi da lanciare in rete: cosa sarebbe stata la Y.B.A. senza questa forza compressa della tecnica (3)? O ancora, quale paesaggio disegnerebbe l'arte europea contemporanea se a questa si dovesse sottrarre l'idea stessa dell'alta tecnologia? Cosa sarebbe oggi l'arte americana, nel suo sterminato paesaggio di "sistema complesso di significato" senza il doveroso paradigma tecnologico?

Ben poco, anche solo per via delle strategie, intimamente connesse all'oggetto propriamente detto "arte", e visionate, contemplate, discusse dall'autore stesso, come parte essenziale, necessaria, fondamentale del suo lavoro: strategie d'impresa, tecnologia digitale, strumentazione d'avanguardia, supporto mediologico ad alto contenuto innovativo (4). Non sono forse totalmente lo "strumento", ma firmano l'attualità di un ambito, in più ne consentono il consumo (5). Forse è inutile dirlo; ma allo stesso tempo, possiamo operare un distinguo, non così scontato. L'arte contemporanea vive della tecnologia in ragione del livello tecnologico del contesto in cui ha luogo; questo vuol dire, ad esempio, che un'arte contemporanea esiste anche laddove questa tecnica non ha raggiunto i livelli dell'Occidente, e quest'arte viene riconosciuta come contemporanea anche da chi storicizza la tecnica come coefficiente minimo del significato.

D'altra parte vige quanto detto sopra: una cosa è l'opera in sé, ben altro ciò che ne fornisce il contesto. Ovvero: chi potrebbe dire che esponenti della etno-art più gettonata come Oladélé Ajiboyé Bamgboyé, Kay Hassan, Kcho, Chris Ofili, Olu Oguibe, Pascale Marthine Tayou siano artisti ipertecnologici, e d'altra parte chi potrebbe affermare che non lo siano? Qualora sostenessimo che la loro opera fosse esclusivamente il prodotto compiutamente materico, in realtà avremmo constatato esclusivamente la parte iniziale del loro percorso fattuale. Ma se non ci fosse l'apparato tecnologico di trasmissione, la contestualizzazione digitalizzata di quest'arte all'interno del moloch del sistema telematico, in realtà sarebbe impossibile trattarne come di oggetti interni ad un modello contemporaneo.

Si tratta della dimostrazione di come l'arte contemporanea supplisca la sua eventuale povertà tecnologica con una buona dose di ipertecnologia digitale: la masterizzazione, la scannerizzazione, il taglia e incolla, applicato ad un oggetto di basso coefficiente tecnico porta ad un immediato livellamento, l'azzeramento del gap gestazionale. D'altra parte, in buona dose, anche l'arte dell'Occidente rifiuta di definirsi come emblema tecnico, e lo fa soprattutto quando tratta di argomenti specifici del campo della tecnica: basta cliccare sul sito web di Jodi per rendersene conto (6).

Quella che per certi versi è la macchina specifica e vettoriale della tecnologia contemporanea, nel senso più attuale, risulta essere una sorta di scivolo verso gli inferi della tecnica. Jodi.org trasmigra attraverso la storia dei linguaggi telematici a ritroso, come una sorta di deriva fredda all'interno dell'universo telematico, dal linguaggio html allo stadio greve del DOS in verde e nero, sino ai bagliori di BASIC, le cui stringhe riconosciamo appena. Che bisogno reale ha l'arte di proporsi come luogo privilegiato della tecnica? In un certo senso non ne ha affatto, ma proiettandosi con quel distacco critico che è patrimonio della ricerca l'arte decostruisce a partire dai linguaggi cifrati della telematica industriale il contenuto stesso della tecnica: il linguaggio apocrifo e oramai obbligatorio, autocostruito, livellante grazie all'ampliamento delle memorie, e dal quale sembra non potersi più esiliare ne è simbolo estremo.

Jodi ci fornisce una chiave di lettura non secondaria: ci dice che questo grande conflitto fra libertà formale e necessità relazionale con un contesto pervaso dall'alta tecnologia non può essere svolto senza aver dilatato e riprogrammato le stratificazioni di senso delle varie piattaforme che nel percorso repentino del linguaggio, quello elettronico ma più in generale tecnico, sono via via evolute. Jodi, infatti, attraversa il percorso evolutivo della computer grafica come a volerne svelare una storia non necessariamente riferita al suo esplicito contesto. Poiché in realtà, nella prassi quotidiana usufruiamo incessantemente d'alta tecnologia di cui siamo semplici esecutori, disconoscendone le complesse componenti stratificate di senso, e le conseguenti temibili manipolazioni concettuali di cui siamo strumenti ignari.

Ecco perché, come scritto da Jameson, viviamo quella "nostalgia del presente" che caratterizza la contemporaneità: una antinomia estetica, si potrebbe dire, che coinvolge direttamente l'uso della tecnica anche quando, come nel caso dell'arte telematica, essa ridiscute il rapporto continuo fra uomo e macchina (7). La telematica industriale ha amplificato a dismisura le relazioni quasi esclusivamente 'virtuali' fra uso e produzione tecnica: nella complessa osmosi dell'arte con la tecnica quest'ultima sembra aver conquistato nuova forza, sostenendosi di dinamiche per lo più sconosciute ai molti.

L'universo della tecnica presiede inamovibile e silenzioso a tutte quelle operazioni che ciascuno compie inconsapevomente: la facilità con cui determinate azioni preordinate vengono svolte grazie alla ripetizione di percorsi elettronici non deve farci dimenticare che siamo sempre sulla superficie di un contesto che al suo interno cela un complicato ed inestricabile mondo di cui solo pochi conoscono l'effettivo potere. Di contro cosa mette in scena l'artista? Egli, sovrapponendosi ad una cultura McDonaldizzata, sembra ergersi come un novello Donchisciotte contro gli sbagli e le malformazioni della realtà post-industriale: la sua arma è una parvenza di ideologia racchiusa nell'identità della forma.

Ma questa ideologia è sì simulacro di conoscenza tesa al limite della percezione, in quanto racchiusa nella tecnica di una forma, ed è allo stesso tempo soltanto un'ombra di ciò che si raccoglieva nelle ideologie del passato. Una ideologia in forma solipsista, si dirà, non è che un raccoglitore di forme sottratte al loro destino casuale: ed in effetti quest'arte è il feticcio nostalgico di una storia, per di più incomprensibile (8). Una forma di solipsismo che lotta indifferentemente per la ragione del suo istinto, quello di affermarsi contro la disaffezione della cultura, quasi a discapito dell'arte stessa e per la perpetuazione di tutta una tradizione (9). Sedotti e sdegnati, repressi e incompresi, gli artisti hanno ideato questo saccheggio della tecnica, sottraendone l'involucro vuoto, privato di storia e di identità per sostituirlo con una particolare edizione, ideologica ma individuale, allergica ad ogni sintomo pestilenziale di connessione reciproca (10).

Come bravi consumatori della postmodernità gli artisti usano una tecnologia che non ha legame alcuno con la storia, privata di conoscenza e di esperienza, trascendente la sua stessa virtù (11). Per questo l'arte possiede una particolare ed enigmatica proprietà: essa ci parla di una ideologia non collettivizzata, di una visione privata e assoluta, che lotta per la giustizia ed il sapere come per l'ignoranza ed il crimine, indifferentemente. Ma all'ignoranza, tuttavia, quest'arte non parla affatto benché nei suoi piani ve ne sia la necessità; rimane muta all'ignoranza poiché non ne rispecchia i codici. In questo caso, è nell'ansia opprimente della consueta domanda "cosa significa?" che l'arte più che dialogare impartisce lezioni, offre titaniche letture che rimangono lettera morta: probabilmente allora sì, chi volesse avvicinarsi ad un contesto senza percepirne l'ideologia individuale insita nelle cose, nelle azioni, non vedrebbe altro che questo coefficiente tecnico.

Una forza tuttavia modellata dall'identità stessa dell'arte, come simulacro sociale della tecnica e dei suoi significati, che invischia, prende, risucchia in un gioco di rimandi speculari da cui difficilmente poterne essere distratti. Un'arte quindi in continuo dilemma: accelerare l'uso delle tecniche per raggiungere il centro di una sorta di "spirito" del presente ma rimanere un'arte vuota alla comprensione di chiunque sia "altro" alla sua storia? Il senso tragico della post-modernità: come il reddito speculativo degli anni '90, destinato a premiare le transazioni più che le produzioni, anche il senso di quest'arte è proiettato solo verso coloro che ne possiedono le chiavi d'accesso.

Roma, 4 Febbraio 2000


  Note

(1) Zygmunt Bauman; La decadenza degli intellettuali, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1992., p. 217.
 

(2) Neil Postman; Technopoly: la resa della cultura alla tecnologia, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
 

(3) Nel caso degli Young British Artists affermatisi sulla scena artistica negli anni '90 si assiste per la prima volta prepotentemente ad un insieme di artisti definiti attraverso una generica etichetta d'impronta geografica ma proposti attraverso tecnologie di marketing come un unico 'pacchetto' di prodotti buoni per rappresentare la contemporaneità: all'interno del gruppo Y.B.A. c'è chi usa una tecnologia esasperata e altri che non ne fanno alcun uso specifico; ma la tecnologia messa in campo è appunto qualcosa che va al di là del semplice lavoro, ma ingloba tutto il percorso dell'opera dalla sua ideazione alla sua realizzazione pubblica.
 

(4) Peter Weibel; Art as open practice, cat. Padiglione Austriaco, Biennale di Venezia 1999, DuMont, Köln, 1999. Esiste una relazione fra l'uso di una tecnologia esasperata e l'appartenenza ad un contesto politico specifico? In quanto prodotto simbolo di una cultura dominante, la tecnologia si presta anche a definire una campo politico che sebbene privilegi il globalismo economico non è sintomo di esperienza democratica fra i diversi contesti geografici.
 

(5) Donald Kuspit; The Dialectic of Decadence, Stux Press, New York, 1993.
 

(6) Il caso Jodi è sicuramente emblematico ma gli esempi potrebbero essere svariati: Jeremy Deller che ha prodotto dei lavori proprio sulla tecnologia digitale, intesi come modelli di approccio alle nuove tecnologie; Olafur Eliasson che lavora sui rapporti fra natura e tecnologia; Sarah Szee ed il suo lavoro sull'estetica dei componenti elettronici; Diana Thater e la sua ricerca sulla realtà dell'immagine digitale.
 

(7) Frederic Jameson; "Nostalgia for the Present", The South Atlantic Quarterly, N.2, Durham, North Carolina, Spring 1989.
 

(8) L'arte contemporanea si rinnova periodicamente su un patrimonio formale che è riconoscibile solo attraverso la conoscenza dell'immediata storia dell'arte; al di fuori di questa conoscenza specifica, infatti, lavori come ad esempio quelli di Fischli & Weiss, Hans Haacke, Jeff Wall risultano banali o in ogni modo inconprensibili. Si è spesso discusso su questa difficoltà dell'arte contemporanea e sulla relativa critica d'arte: in realtà è vero che spesso la critica d'arte ha usato e usa forme astruse per esprimere concetti lapalissiani, e che l'arte è spesso criptica. D'altra parte è pure vero che se l'arte contemporanea si riferisce ad un sistema di pensiero complesso ne acquisisce anche la difficoltà di linguaggio.
 

(9) Mark Kemp; Immagine e verità,  ed. it. Il Saggiatore, Milano, 1999.
 

(10) Jacques Aumont; De l'estetique au present, De Boeck Université, Bruxelles, 1998.
 

(11) Mike Featherstone; La cultura dislocata: globalizzazione, postmodernismo, identità, ed. it. Seam, Roma, 1998.
 


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