La Critica

Altre totalità
Per una breve ricognizione filosofica sul cyberspazio

di Gian Mario Quinto

(*) L'intero saggio da cui è tratto questo articolo è scaricabile qui in formato PDF

 

Che la rete costituisca un esito dell’inconscio lavorio concettuale di gran parte della riflessione teorica del secolo scorso, è quasi ormai un’ovvietà storiografica. La logica del Web sembra infatti dotata di una propria autorevolissima protostoria concettuale che va dalla testualità di Barthes alla decostruzione di Derrida, dalle genealogie foucaultiane al dibattito sul postmoderno.

Analogo destino storiografico sembra appartenere anche ad un’altra grande metafora fondativa della rete: l’idea di totalità, e quelle ad essa legate: il sistema, l’organismo, il globale. Da questo punto di vista il noto libro di Pierre Lévy sull’antropologia del cyberspazio, L’intelligenza collettiva (1994), contiene, nonostante si presenti volontariamente come pionieristico e a tratti persino visionario, il precipitato di alcuni grandi récits sui destini prossimi dell’Occidente, e mostra come qualsiasi indagine sulla natura dei new media, pur percorrendo vie autonome, non possa prescindere dal ventennio di ipotesi sulla cosiddetta attuale condizione postmoderna.

Intendo proporre in questo lavoro alcuni livelli di riflessione sulla natura dell’universo multimediale cercando di seguire il decorso di certe metafore epistemologiche a mio avviso ancora utilizzabili ai fini di una comprensione del destino specifico della rete, della sua interna originalità o persino eccedenza di medium. Il tentativo di Lévy offre infatti una precoce sintesi ad ampio raggio sugli effetti antropologici del cyberspazio. Nella sua ricostruzione la rete rappresenta sostanzialmente il dispiegarsi di un nuovo spazio del sapere, dalle amplissime conseguenze antropologiche.

L’esito principale dell’imporsi generalizzato dei nuovi media sarebbe infatti secondo Lévy individuabile in una "produzione continua di soggettività" grazie a cui i singoli individui percepiscono se stessi come soggetti cognitivamente integrati. Con la rete si attuerebbe in altri termini un passaggio per certi versi epocale da un’età mediatica (situata al culmine di ciò che Lévy chiama "spazio delle merci") ad un’età post-mediatica caratterizzata da nuove tecniche del sapere che tendono a "filtrare i flussi di conoscenze, a navigare nel sapere e a pensare insieme piuttosto che a trasportare masse di informazioni".

Di qui il profilarsi di un’"intelligenza collettiva" vista come dimensione costituita da un sapere disseminato ovunque ma valorizzato dalla sua stessa struttura differenziale. L’ipotesi centrale di Lévy è che l’epoca della rete consentirebbe una diversa e produttiva mobilitazione delle singole competenze. È una dimensione che Lévy definisce come passaggio da una struttura molare ad una struttura molecolare dell’universo comunicativo.

Con il termine "molare" si intende un approccio di tipo olistico ai fenomeni, un atteggiamento di pensiero che teorizza gli oggetti in rapporto alla totalità degli elementi che li compongono: l’età delle comunicazioni di massa sarebbe segnata da tecnologie molari, ad esempio, in quanto tenderebbe a riprodurre i messaggi mediante dispositivi di conservazione e diffusione progressivamente più raffinati (riproducibilità, sistematicità, uso di codici comunicazionali altamente strutturati). I media costituiscono cioè delle tecnologie attive sui messaggi solo dall’esterno e in modo dichiaratamente totalizzante.

Con "molecolare" si intende al contrario un’attenzione rivolta ai frammenti minimi del messaggio, una disponibilità alla combinazione, alla ristrutturazione dei segni che non mira tanto alla loro riproduzione o diffusione quanto piuttosto ad una generazione del messaggio stesso, ad un costante processo di modifica e interazione dei segni. Secondo Lévy, saremmo in presenza di una sorta di estensione vertiginosa del principio del montaggio cinematografico alle varie competenze comunicative: la rete informatizzata costituirebbe un esempio prodigioso di tecnica molecolare in quanto in grado di garantire un’attenzione assoluta verso le "microstrutture" dei messaggi da cui in ultima analisi risulta costituita. L’esito sarebbe una sorta di nuovo continuum delle conoscenze.

La dicotomia molare/globale assume le caratteristiche di una distinzione tra categorizzazione, frantumazione numerica dei messaggi (centrale nell’età mediatica) e unità comunicativa collettiva caratterizzata da un’inedita interrelazione tra messaggi stessi. La nuova natura dell’informazione digitale (ipertestuale, reticolare) opererebbe in questo senso una sorta di de-gerarchizzazione dell’universo segnico: "I messaggi del cyberspazio interagiscono e si chiamano da un capo all’altro di una superficie continua deterritorializzata; i membri dei collettivi molecolari comunicano trasversalmente, al di là delle categorie, senza passare per una forma gerarchica, piegando e ripiegando, cucendo e ricucendo, complicando a piacere il grande tessuto metamorfico delle città pacifiche".

Non sfugge l’utopia politica presente in queste tesi: la democrazia filtrata dalla rete implicherebbe un’azione politica di diffusione molecolare (non più piramidale o totalitaria appunto) delle qualità umane. Dal livello politico a quello metafisico, se così si può dire, non c’è poi che un passo: i mondi virtuali diventano, nella ricostruzione di Lévy, degli autentici strumenti di conoscenza di sé oltre che di autodefinizione dei gruppi umani. Gli "intellettuali collettivi" esprimeranno delle soggettività autonome e in qualche modo addirittura autopoietiche.

Lévy cita alcune nuove esperienze di trasmissione cognitiva che sintetizzando la complessità delle informazioni, abolendo i tradizionali limiti spazio-temporali, mettono in comunicazione le intelligenze e danno senso ulteriore ad un’esperienza-chiave come la navigazione in rete. Si assisterebbe insomma (anche se per ora soltanto embrionalmente) ad una proliferazione, ad un arricchimento, ad una crescita del mondo concreto (del vissuto, dell’Erlebnis), più che ad una sua dissoluzione virtuale o spettacolare. Lévy ipotizza in altre parole un riapertura forte del progetto semiotico, quasi un’ermeneutica cognitiva dei segni.

In uno dei passi centrali del libro (in cui è facilmente percepibile l’influenza del pensiero della differenza immanente di Deleuze e Guattari, del "corpo senza organi" per intendersi) leggiamo: "Il pensiero non può essere ridotto ai discorsi razionali, ci sono dei pensieri-corpo, pensieri-affetto, pensieri-percezione, pensieri-sogni, pensieri-concetto, pensieri-gesto, pensieri-macchina, pensieri-mondo". Lo spazio del sapere è in qualche modo assimilabile ad una superficie di ricomposizione e rilancio processuale dei pensieri.

Gli intellettuali collettivi sarebbero degli "immaginanti collettivi" e le loro reciproche interazioni produrrebbero una diversa idea di globalità, un tutto interpretabile come tessuto in fase di "riassetto dinamico permanente". Si apre lo spazio per altre identità: Lévy parla di un "policosmo", di una "cosmopedia" intesa come rappresentazione dinamica delle conoscenze da contrapporre ad una tradizionale visione del sapere come enciclopedia (letteralmente: ritorno del sapere in sé, cerchio di conoscenze, raccoglimento).

Le forme-chiave di questo nuove dimensioni sono un certo "nomadismo" dei soggetti in rete, l’"eterogeneità" delle loro competenze e persino l’"identità multipla" dei nuovi naviganti. Ma progetto semiotico forte significa forse anche che alla cosiddetta iperrealtà della società mediatica (si pensi soprattutto alle posizioni di Baudrillard) cioè alla presunta derealizzazione attuata dalla società dello spettacolo (il reale ridotto a segno, a simulacro) la semiotica del sapere contrapporrebbe un ritorno alla densità dell’essere, alla corposità della significazione. La metafora è quindi di nuovo quella dell’uscita dalla logica del sistema, dalla totalità compiuta.

Nel "quarto spazio" di Lévy i segni non rinviano più ad alcuna clavis universalis, ma solo a "linee di significazione erranti, singolari, a spazi di significato metamorfici". Spazio del sapere significa in questo senso che il soggetto della conoscenza si costituisce propriamente grazie al flusso interattivo dei singoli saperi ‘viventi’. È come se procedessimo verso una sorta di "costruzione reciproca" delle identità culturali.

A questo livello diventa persino più semplice pensare ad un oltrepassamento del concetto di ipertesto come nucleo operativo della rete: i nuovi sistemi reticolari sarebbero piuttosto determinati da rappresentazioni fluttuanti dal sapere come indefinito continuum, da ciò che nelle pagine finali Lévy definisce l’"immensa immagine elettronica pluridimensionale in continua metamorfosi" che presiede al dispiegarsi dell’intelligenza collettiva, una sorta di utopia dell’"instabile e del molteplice". Siamo alle origini della nozione di rete.

Una protostoria che sembra però aver tematizzato alcune questioni in seguito quasi obliate dal dibattito sulle potenzialità dei new media. Penso a opere come La volontà di sapere di Foucault (1976), Il metodo di Morin (1978), La condizione postmoderna (1979) di Lyotard fino a Sistemi sociali (1984) di Luhmann. Tutte convergenti nella presa d’atto della crisi irreversibile della nozione di sistema come relazione, legame organico tra le parti, comunità. In Foucault, ad esempio, la struttura del potere della tarda modernità tende a perdere il secolare carattere di dominio autocosciente o centrale, di "unità globale di una dominazione" e ad assumere piuttosto la forma di una "molteplicità di rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione".

La rete potrebbe da questo punto di vista essere davvero letta come una sorta di grandiosa realizzazione postuma del vicolo cieco della modernità ipotizzato da Foucault, cioè del livello in cui sembra profilarsi un’identificazione di fondo tra la struttura del nuovo medium e la natura cognitiva (proprio nel senso di Lévy) dei suoi interpreti. La forza teorica del circolo vizioso descritto da Foucault risiede infatti nel tentativo di delineare l’effetto degli strumenti di controllo non tanto o non più in termini di causalità o connessione logico-razionale tra fatti, ma in quelli di un’intenzionalità che sfugge ai soggetti stessi:

«le relazioni di potere sono contemporaneamente intenzionali e non soggettive (…). La razionalità del potere è quella di tattiche (…) che connettendosi le une alle altre, implicandosi e propagandosi, trovano altrove la loro base e la loro condizione, e delineano alla fine dei dispositivi d’insieme: (…) carattere implicito delle grandi strategie anonime, quasi mute, che coordinano tattiche loquaci, i cui "inventori" o responsabili sono spesso senza ipocrisia».

Un’interpretazione della presenza trasversale del potere nelle società contemporanee è rappresentata poi come noto anche dalla "teoria dei sistemi" di Luhmann, la cui affinità con le prospettive del tardo Foucault è stata efficacemente rilevata da Habermas. Già nel 1965 infatti Luhmann - in un saggio tra i suoi più penetranti: Scopo, Potere, Sistema - criticando la semplificazione operata dall’interpretazione weberiana dell’agire sociale alla luce del rapporto scopo/mezzo, giungeva ad un’identificazione del concetto di sistema come "organismo" capace di ottenere una riduzione della complessità (cioè, secondo Luhmann, una costruzione di senso) solo a prezzo di ospitare al suo interno un’irriducibile conflittualità di base: L’obiettivo globale serve alla razionalizzazione imperfetta di sotto-obiettivi contraddittori, che vengono perseguiti come scopi dai singoli gruppi o sottogruppi del sistema. I progressivi processi di differenziazione interna tipici di sistemi sociali sempre più complessi e quasi "autopoietici" come quelli che pervadono le società contemporanee, non lasciano più spazio alla validità del rapporto causa/effetto come criterio esplicativo dell’agire sociale.

Il mantenimento del sistema implica un sovvertimento di convinzioni secolari: dal punto di vista della sua funzionalità, esso mira infatti esclusivamente alla propria autoconservazione, e in quanto tale appare strutturalmente indifferente alla natura delle singole opzioni di volta in volta utili allo scopo (valori collettivi, produzioni di senso a livello soggettivo, ideologie politiche e così via).

Se ci spostiamo poi a livello più interno, la critica al concetto olistico di sistema avanzata da Morin sul piano strettamente epistemologico implicava l’assunzione di nuovi paradigmi, tra cui quello fondamentale di una totalità in permanente stato di tensione dissolutiva, di entropia endemica. Il "tutto" si configura infatti nella prospettiva di Morin sempre e contemporaneamente come maggiore e minore della somma delle sue parti.

Il modello di sistema polirelazionale che affiora dai più densi snodi epistemici del Novecento, accoglie la natura contraddittoria della "complessità di base" dei fenomeni, specie quelli sociali: "Il sistema è nello stesso tempo aperto e chiuso. Non v’è funzionamento senza disfunzione". Se pensiamo infine al nucleo concettuale delle ormai classiche ipotesi di Lyotard sul postmoderno come crisi dei grandi racconti di legittimazione della modernità, non possiamo non ricordare come anch’esso faccia cenno verso l’instabilità dei saperi contemporanei.

Grandi narrazioni (récits) sono stati per Lyotard i sistemi e le prospettive teoriche dell’epoca moderna: il progetto illuminista di emancipazione dai dogmi religiosi, l’idea hegeliana di una fine della storia nel trionfo della ratio, le ideologie egualitarie e totalizzanti, lo sviluppo illimitato dell’economia, l’onnipotenza tecnologica e persino l’idea kantiana di una giustizia universale o di un’etica comune. Dinanzi alla complessità crescente di una società informatizzata che moltiplica le conoscenze in miriadi di argomenti specialistici, il sapere tradizionale come codificazione di pratiche discorsive teorico/ideologiche, dilegua vertiginosamente.

La condizione contemporanea sembra di fatto segnare proprio un’esplosione di quei sistemi di garanzia: la "funzione narrativa" della modernità, secondo la definizione di Lyotard, sembra davvero perdere progressivamente i suoi "grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli ed i grandi fini" disperdendosi "in una nebulosa di elementi linguistici narrativi" diversi e, come abbiamo notato in Luhmann, spesso internamente aporetici. Un esito possibile del crollo del progetto moderno, non necessariamente negativo ma profondamente distopico, importerebbe un uso in qualche modo eversivo della nozione di paralogia come teoria delle aporie della conoscenza, come trascrizione filosofica della crisi finale dei paradigmi dominanti.

Riepilogando: proliferazione dei dispositivi di potere/sapere (Foucault), sistema come cieca e incontrollabile autopoiesi (Luhmann), crisi dei paradigmi organicistico-olistici (Morin), sapere come paralogia, negazione, "dissenso" (Lyotard). È tutto ciò direttamente utilizzabile per un’ermeneutica della rete? È davvero praticabile, come sembra prospettare oggi Lévy, una rilettura in qualche modo positiva del più problematico lascito critico del tardo Novecento?

È possibile una trasfigurazione poietica, per così dire, delle instabilità contemporanee, dei nuclei di collasso che caratterizzano la società attuale? È infine più facilmente ipotizzabile uno sviluppo e un ampliamento delle competenze (e quindi un potenziale incremento del binomio libertà/democrazia) che non una mortificazione strutturale delle nostre qualità cognitive?

Ritraducendo quest’ipotesi dopo la rivoluzione informatica non è improbabile che una questione tra le più interessanti per la riflessione attuale possa derivare dal chiedersi se proprio la rete tout-court costituisca il nuovo paradigma di una comunità della differenza, cioè di un oltrepassamento delle strutture semantiche forti della tradizione occidentale (evidenza, circolarità, potere, autorità del senso) o non piuttosto una sorta di ultima totalità.

(*) La versione completa di questo saggio è scaricabile qui in formato PDF   

Roma, 28 Giugno 2003


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