La Critica

Flânerie veneziane

Itinerari tra la Biennale e la città

di Giuliana Paolucci

La luna nel pozzo

In una delle più belle novelle pirandelliane, Ciaula, un giovane caruso siciliano, povero e ritardato, costretto a svolgere il turno notturno all'interno della miniera di zolfo nella quale doveva ogni giorno lavorare, era terrorizzato all'idea di ritrovarsi, una volta uscito dal buio famigliare e rassicurante della viscere della terra, quasi un utero materno, a contatto con il buio vacuo della notte. Meravigliosa sorpresa per lui scoprire l'argentea luce della luna che conferiva il volto noto alle cose, al paesaggio e soprattutto faceva svanire la sua immensa paura. Illuminazioni appunto il titolo scelto da Bice Curiger per la 54 edizione della Biennale. Tutti abbiamo bisogno di un immaginario abat-jour che ci liberi dalla paura del buio, dal pavor nocturnus che in senso metaforico continua ad inquietarci. Tutti in fondo abbiamo bisogno di sconfiggere le nostre paure, di essere continuamente rassicurati.

Forse per questo così grande è l'emozione quando si entra dentro il Padiglione giapponese e ci si trova all'interno di uno scenario notturno dove sono invertite e confuse le coordinate spaziali, ed è come trovarsi in una notte di plenilunio. Tabaimo, l'artista scelta per rappresentare il suo paese, ha ricreato un mondo nuovo in un sofisticato video proiettato sulle pareti appositamente rese concave per far scivolare la percezione di chi guarda in un contesto spaziale senza i connotati del mondo fisico reale e così emergono come dal fondo del mare, che però è anche il cielo, contemporaneamente case e palazzi e poi creature viventi ibridate ma pur belle. Ci si accorge poi che l'interno dello spazio del padiglione, non più riconoscibile nel suo essere architettonico di banale edificio, è dominato dalla presenza di un pozzo dove corrono immagini di nuvole e cielo. Si sospetta di guardare in effetti non solo dal disopra del pozzo, dalla sua ghiera, ma di vedere come se ci si fosse immersi, come si stesse all'interno e si discoprisse il creato. Il titolo dell'opera, Teleco Soup, indica in giapponese l'idea di una zuppa invertita. "La rana nel pozzo", recita un proverbio nipponico, "non può immaginare l'oceano ma conosce (sicuramente) l'altezza del cielo"
Viene spazzata in questa installazione-costruzione ogni distinzione non solo tra sopra e sotto, ma tra arte e poesia perché l'una inizia dove finisce l'altra.

Immagine qualunque

Tabaimo, Teleco Soup, Padiglione del Giappone

Nel vicino Padiglione inglese Mike Nelson ha ricostruito un'edizione diversa di una sua precedente installazione realizzata per la Biennale Internazionale di Istanbul del 2003, Magazin: Buyuk Valide Han, adattata allo spazio britannico dei giardini veneziani. Entrandovi ed inoltrandosi all'interno di questa costruzione parassitaria si può fare l'esperienza fisica del mancamento o della claustrofobica sensazione da tutti vissuta all'interno delle relazioni umane.

Venezia

A chiunque sia stato almeno una volta nella città lagunare non è sconosciuta l'esperienza di essere introdotto, attraverso un varco da saga fantascientifica che coincide spesso con l'uscita dalla stazione santa Lucia, in un universo parallelo, così favoloso e inusuale da non subire il condizionamento della connotazione temporale parziale. La dimensione del luogo dove si è approdati è mitica e magica perché appartiene alla stessa categoria del sogno di cui condivide l'indeterminatezza data dal riverbero dell'acqua e dalla fluidità nella quale è immanente. La percepisce lo sguardo nella vibrazione dei riflessi e l'olfatto perché l'odore di Venezia è quello di una creatura marina . Il rumore delle automobili che connota il suono urbano dell'età che stiamo vivendo è sostituito poi, in laguna, dalle voci umane e dal verso stridente dei gabbiani e infine l'andatura basculante del vaporetto contribuisce all'incantesimo.

Così ci si aggira tra le sue calli ed i suoi ponti annusando l'aria e sentendo l'eco della sua storia, in una sorta di atemporalità favolosa e onirica, inalterata rispetto a quella descritta da John Ruskin a quasi centocinquant' anni di distanza nel suo The Stones of Venice e mentre si cammina e si vagola tra le acque di questa città in bilico tra realtà e finzione cinematografica, tra reale e surreale, non è raro trovarsi di fronte a qualcosa di inusuale che non appartiene alla topografia e all'architettura urbana di questo sogno di pietra. Sul Canal Grande, davanti alla chiesa di san Stae per esempio occhieggia una Madonna realizzata come se fosse un ologramma composto da innumerevoli uova decorate utilizzate come pixel.

È l'installazione di Oksana Mas, che si erge in tutta le sue grandiose dimensioni a fare intravvedere i volti riprodotti dalla celebre pala I giardini del Paradiso dipinta in un proto Rinascimento dai fratelli Van Eyck per la città fiamminga di Gand. Sono frammenti ingigantiti in un progetto che non a caso si intitola Post-vs-proto-Renaissance e nel quale l'artista ucraina utilizza i krashemi, le tradizionali uova decorate che per l'occasione fa dipingere a persone di 142 paesi diversi e a delle detenute in carceri femminili coniugando la tradizione alla coralità dell'opera alla ricerca di un risultato che sia un' iniziazione, come dice il curatore, Bonito Oliva, verso una nuova vita, una vita piena [1].

Sfere

La sfera, solido, assunto e utilizzato come simbolo dell'infinito e della perfezione, sotteso all'architettura e all'iconografia rinascimentale, è utilizzato come archetipo ma anche come elemento combinatorio in molte opere presenti in Biennale. Sono ancora moltissime piccole sfere infatti che concorrono a comporre l'opera che le due sorelle Sahdia e Raja Alem hanno realizzato all'interno delle Corderie, The black Arch, nel Padiglione dell'Arabia Saudita. Lavoro più che mai simbolico dove davanti ad un monolite cubico nero uno specchio domina la scena che fonde il tema delle due città La Mecca e Venezia a quello del pellegrinaggio che costituisce un importante substrato della memoria famigliare e collettiva delle due artiste. Attraverso l'intervento delle videoproiezioni sulle sfere metalliche che costituiscono il basamento-pavimento dell'opera, ci si trova sul mare veneziano o nella seconda città sede di pellegrinaggio per eccellenza.

Altro fattore ad altissimo potenziale significativo è il Nero, allusione al loro passato [2].
Il nero ritorna nel video di Shirin Neshat a Palazzo Fortuny [3], l'artista iraniana che nel 2009 ha girato il potente lungometraggio Donne senza uomini. Anche nel video presente al piano terra di palazzo Fortuny scorrono immagini di grande impatto visivo ed emozionale. E' sempre presente un gruppo di donne islamiche rigorosamente vestite di nero che dominano parte del campo visivo raspando la terra arida e sassosa di un deserto ocra e desolato. Ed è il nero della macchia che compongono nel loro cerchio, che incombe con tutta la pesantezza della memoria terribile sulla condizione femminile nei paesi islamici, amplificato dal ritmo ossessivo della musica di Philip Glass.

Per gli alchimisti, non a caso, l'opera in nero rappresentava la fase più difficile della Grande Opera perché coincideva con la separazione e dissoluzione della sostanza, come dimostra il percorso del monaco Zenone nel romanzo della Yourcenar [4] ed è proprio il processo di spoliazione che costituisce una cifra di riferimento per il lavoro dell'artista iraniana.

Il nero e l'opera alchemica

Nelle cattedrali gotiche e in particolar modo a Chartres i tre rosoni rappresentavano nei loro colori l'opera alchemica, nel passaggio dal nero, al bianco e infine al rosso attraverso il tipo di luce che introducevano nella chiesa durante il giorno. Si poteva così, seguendo il percorso del sole, passare dal nero del rosone del transetto (esposto a nord), al bianco della luce del mezzogiorno del portale esposto a sud e infine nel rosso della luce che al tramonto entrava da quello sopra l'ingresso, posizionato a ovest, e in questo passaggio si compiva per il pellegrino o per il fedele la trasfigurazione che è alla base di ogni processo alchemico.

Nell'esposizione contemporanea due sono gli artisti che esplicitamente rimandano all'opera alchemica: Kiefer, esposto alla Fondazione Vedova nei vecchi Magazzini del Sale e Jan Fabre, in esposizione con la sua Pietas nella chiesa della Scuola Grande della Misericordia a Cannaregio, vicino all'altra chiesa più nota - e più che mai in questa occasione - della Madonna dell'Orto dove è sepolto Tintoretto, ma soprattutto dove sono esposti i suoi famosi teleri, così vibranti di luce da far scegliere a Bice Curiger per questa Biennale il titolo ILLUMInazioni, in onore al grandissimo maestro veneziano scelto per l'uso spregiudicato e moderno della luce appunto.

Nella grande installazione progettata da Kiefer per lo spazio stretto e lungo della Fondazione Vedova, ristrutturato da Piano come l'interno di un veliero, con l'impiantito inclinato, grandi lastre di piombo rettangolari, disposte ad una certa distanza una dall'altra, formano una lunga processione e il visitatore può attraversarle come lenzuola stese. La colorazione ottenuta su ciascuna, dove era stata precedentemente impressa l'immagine fotografica di un paesaggio, non è più riconoscibile perché nel corso del lavoro si è trasformata per un processo elettrolitico producendo sale. Il sale, elemento che conferisce sapore, vitalità, energia e che contemporaneamente produce una trasformazione radicale, originando un risultato fascinoso in cui la trama della materia così ottenuta crea effetti di rara bellezza nella quale si mescolano in combinazioni casuali colori ramati, terre, infinite sfumature di grigio e ossidi che rimandano al verde rame e ai piombi di Venezia. Salt of the Earth è il titolo infatti di questa suggestiva installazione-costruzione che non a caso si trova nei Magazzini del Sale.

Pietas

Nella Pietas di Fabre, montata ad occupare tutto lo spazio della navata centrale della Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, colpisce l'assolutezza dell'oro della pedana, dove si cammina con delle quasi-comiche sovrascarpe di feltro, che evoca immediatamente gli ori bizantini e tutti i significati simbolici che da sempre questo colore riveste. Ancora il bianco purissimo del marmo di Carrara nel quale l'artista ha realizzato la copia della Pietà di Michelangelo in cui il personaggio deposto è lo stesso Fabre e dove la Madonna ha le sembianze esplicite della morte, nel teschio che le sostituisce il viso. Immacolati e marmorei sono anche i giganteschi cervelli che occupano lo spazio con tutti gli altri simboli che popolano l'universo dell'artista, dalle tartarughe agli immancabili coleotteri infilati uno nell'altro nei suoi caratteristici assemblaggi a costituire la pelle scagliosa e iridescente di un guscio. Bianco, oro e verde in questo caso le cromie alchemiche. Potente e immaginifico come ormai ci ha abituato, il lavoro di Fabre.

Anche il Padiglione coreano ospita due grandi Pietà, una ottenuta dal calco dell'altra esposta in vetrina, di Lee Yongbaeck, e tutto l'edificio è riempito da stampe fotografiche di fiori che coprono anche le divise dei militari performers che si muovono all'interno. Fiori dappertutto anche in un grande quadro alla parete dove si distingue esserci qualcosa in movimento. Ci si accorge poi che qualcuno sta sparando all'interno dei fiori. Le fleurs du Mal, verrebbe da dire, e Baudelaire torna anche con il suo concetto di flaneur che inevitabilmente viene in mente nella modalità di visita di questa mostra così gigantesca e labirintica. Non ci si può che muovere come dei contemporanei flaneurs nei tanti possibili percorsi, per cui inevitabilmente si guardano e si abitano di volta in volta i luoghi dell'esposizione entrando in rapporto empatico o meno con il contenuto della mostra a seconda del nostro fenomenico approccio che varia di giorno in giorno e di ora in ora.

Di ora in ora...

L'opera che ha messo d'accordo tutti i critici ed ha vinto il Leone d'oro è centrata sul tempo. The Clock, dell'artista svizzero-americano Christian Marclay, unisce in un titanico collage tutti i pezzi di pellicole cinematografiche dove viene inquadrato l'orologio, le cui lancette segnano l'ora reale. Il video dura quindi 24 ore e ci catapulta dentro la storia del cinema con un montaggio sapiente e ironico che rende interscambiabili i ruoli dei personaggi filmici con il nostro di spett-at(t)ori.

Spari

Al Museo Laboratorio della mente che a Monte Mario occupa i padiglioni dell'ex manicomio romano, Studio Azzurro ha realizzato qualche anno fa uno suoi più riusciti ambienti sensibili e al visitatore che entra in questo memoriale del dolore subìto, il primo colpo è dato dai tonfi che corpi, videoproiettati su pareti trasparenti, producono schiantandosi nell'inane tentativo di fuggire. In modo analogo all'interno dell'apparentemente floreale padiglione coreano, in Brocken Mirror spari creano delle spaccature sugli specchi che si espandono dai fori dei proiettili e nello specchio la nostra immagine stessa si sbriciola.

Il tema degli spari è ancora centrale nella partecipazione nazionale del Belgio dove assistiamo in diretta al frantumarsi di un'illusione. Su una lastra di vetro vediamo proiettata l'immagine in movimento e parlante di Pasolini. Nell'opera Feuilleton di Angel Vergara spari e colori si frangono sovrapponendosi come nel video che spazialmente gli si oppone, dove la faccia del nostro presidente del Consiglio viene colpita a sangue e l'azione è ripetuta al parossismo. Sangue, colori e spari si enucleano nelle lastre. Assassinio, violenza, attentato, terrore, parole chiave di un campo semantico diffuso in molti luoghi della 54.Biennale.

Le immagini più violente, di mutilazioni e orrende torture, cadaveri smembrati e ogni orrore al quale un compiacimento macabro dei media ci ha ahimè quasi abituato, contrastano volutamente nel Padiglione svizzero con la lucentezza del cristallo. Con Crystal of Resistance, Thomas Hirschhorn ha voluto creare un luogo fatto interamente di cristalli (tutto è infatti incellophanato o ricoperto da chilometri di fogli d'alluminio o è contestualizzato in colori metallici e riflettenti), e come egli stesso dice ha voluto creare un luogo assolutamente nuovo e nello stesso tempo universale [5]. Torna ancora il tema della morte già affrontato nelle Pietas, nell'evento " sottopelle" di Renato Meneghetti, dove nello spazio estremamente suggestivo dell'Arsenale Novissimo viene rivisitata l'opera di Mantegna, Lamento sul Cristo morto, e l'utilizzo delle nuove tecnologie permette di creare un'atmosfera rarefatta e di ottenere un risultato molto vicino all'ologramma.

Algoritmi e logiche matematiche

Una logica matematica è alla base dell'opera scelta per rappresentare l'Egitto: 30 days of running in the place, dove un sensore sulle suole dell'artista Ahmed Basiony manda impulsi che vengono trasmessi e rinviati come diversi valori codificati. Il giovane artista è stato ucciso durante gli scontri che hanno preceduto la rivoluzione di gennaio e immagini delle manifestazioni che lui era andato a filmare con la sua telecamera, vengono mandate in onda di continuo.
Ancora un algoritmo è alla base dell'ironica opera nel Padiglione americano, intitolata appunto Algorithm, dove un bancomat, collegato ad un organo a canne alto quasi sei metri, produce una melodia elettronica trasferendo gli impulsi numerici in partiture musicali. Ad ogni transazione finanziaria corrisponde una registrazione musicale esclusiva. Il titolo di un'altra opera della coppia Allora & Calzadilla, presente nello stesso Padiglione, Track and Field, coniuga infatti con sarcasmo ed humour anglosassone le contraddizioni della società statunitense alle prese con i miti dello sport, della forma fisica, della finanza, della competizione e della guerra con la quale deve continuamente confrontarsi. Per questo all'esterno un atleta corre a intervalli regolari sopra un carro armato capovolto al quale è stato collegato un tapis-roulant.

Ancora la logica matematica dell'entropia è sottesa alle opere esposte in un altro spazio dell'Arsenale Novissimo. In due alte colonne piene di acqua della laguna Alexander Pomonarev fa galleggiare strani feti in cerca di una nuova nascita dal caos. Un'altra colonna, questa volta, ascensionale e di vapore bianco si alza (se pur con qualche difficoltà) all'interno della chiesa di San Giorgio. Si tratta di Ascension di Anish Kapoor, opera che, nonostante abbia fatto parlare molto di sé per il cattivo funzionamento del marchingegno ad essa sotteso, strappa comunque un'innegabile ammirazione per la sua purezza.

Padiglione Italia

Imbarazzante trovarsi, di fronte al Padiglione Italia, ad una logica, se così la si può definire, sicuramente non in linea con quanto detto sopra. Ci si chiede: che sia concepita come un'opera concettuale del professor Sgarbi? Forse in quest'ottica potrebbe avere un senso, ma certo il titolo scelto, L'arte non è cosa nostra, pone degli interrogativi quando entrando ci si trova di fronte ad una quadreria in cui gli artisti segnalati dai personaggi non interni al mondo dell'arte sono stati penalizzati da questa non felice operazione. È un po' come costringere qualcuno che non sia stato educato a farlo e non ne abbia appreso le categorie ad ascoltare un brano di musica elettronica. Non si accorge di essere dentro al suono e non più al di fuori. Entrare al Padiglione Italia vicino alle Gaggiandre produce questa fastidiosa sensazione: essere fuori, al di là dell'opera. Eppure appena si esce nel Giardino delle Vergini gli artisti cinesi con la loro Pervasion ci rimandano nell'arte come fenomeno immersivo. La nuvola di vapore al profumo del thè verde Cloud-Tea, di Cai Zhisong, ci cattura e così continuiamo a emozionarci passando all'interno del tunnel di parole di Pan Gongkai, Snow Melting into the Lotus, dove le lettere si staccano a formare una impalpabile nevicata.

Nazioni

Bice Curiger nello scegliere il titolo di questa Biennale ha pensato alla parola "Illuminazioni" ed ha utilizzato il falso suffisso "nazioni" per chiedere agli artisti presenti di pronunciarsi sul concetto di Nazionalità. Colpisce sfogliando l'indice biografico del catalogo la quantità di quelli che appartengono almeno a due o tre tradizioni, quella di origine e quella del paese dove si trovano a vivere o a lavorare. E' evidente che ci troviamo di fronte ad un nuovo concetto di identità nazionale fatto di appartenenza a culture, storie e tradizioni, ma soprattutto di capacità di aprirsi alla conoscenza dell'altro da sé e non stupisce affatto che all'interrogativo della Curiger non pochi abbiano risposto di sentirsi a casa nel mondo. L'artista non è forse qualcuno che riesce a illuminarci? Come le statue di cera realizzate da Urs Fischer per l'esposizione di quest'anno, che come candele fragili e deperibili pur tuttavia ci permettono di guardare il mondo che ci circonda rintracciando le lumeggiature di Tintoretto o le parole di Rimbaud in una frase del suo poema Illuminazioni: "Ho teso corde tra campanile e campanile, ghirlande tra finestra e finestra, catene d'oro tra stella e stella e danzo..." [6].

Roma 24 luglio 2011


Note

[1] Dal catalogo della mostra AA. VV., ILLUMInazioni, 54. Esposizione Internazionale d'Arte, a cura di Bice Curiger e Giovanni Carmine, Marsilio, Venezia 2011, p. 461.

[2] Raja Alem: "sono cresciuta nella consapevolezza della presenza fisica del nero tutto intorno a me, le sagome nere delle donne saudite, il telo nero della Ka'ba e la pietra nera che, secondo la credenza, ha accresciuto le nostre conoscenze", in catalogo della mostra, p. 395)..

[3] Dove è ospitata la mostra "TRA". Edge of becoming.

[4] Marguerite Yourcenar, L'opera al nero, (1968), Feltrinelli, Milano 1969.

[5] "desidero affrontare questo conflitto tra creatività e distruzione. Io stesso sono conflitto e voglio che il mio lavoro si situi nella zona di conflitto, che si erga nel conflitto e che resista", dal comunicato stampa dell'esposizione al Padiglione svizzero, Venezia, giugno 2011.

[6] Arthur Rimbaud, Illuminations, 1856, Parigi.