La Critica

Scacco all'Arte

di Gianmarco Nevi

«Una partita a scacchi è una cosa visiva e plastica, e se non è geometrica nel senso statico della parola, è almeno meccanica, poiché è qualcosa che si muove; è un disegno, una realtà meccanica [...] ma ciò che è bello – se la parola "bello" può essere impiegata – è il movimento [...] Si tratta di qualcosa che avviene totalmente nella materia grigia».

«I giocatori di scacchi si fronteggiano reggendo sopra le teste i rispettivi pensieri pensanti talmente aggrovigliati che sembrano i fili di una matassa informe. In quelle due nuvolette rabbiose di ragionamento allo stato puro c'è tutta la partita: mosse, contromosse, contro-contromosse [...]».

«La partita sui tetti di Parigi fra Marcel Duchamp e Man Ray in Entr'acte di René Clair (1924) inaugura la carriera cinematografica degli scacchi, gioco preferito di Stanley Kubrick [...]».

La passione degli scacchi ci offre un interessante e fertile punto di contatto fra due dei più grandi e misteriosi artefici dell'arte del Novecento. Quello che cercheremo di far affiorare all'interno dei singoli corpus artistici è l'aspetto propriamente "scacchistico" che sottende la concezione e la realizzazione dell'opera in Duchamp e Kubrick. Che tutta la filmografia kubrickiana sia contrassegnata da continui riferimenti al gioco degli scacchi (la pavimentazione a scacchiera in "Il bacio dell'assassino", lo scacchista Boris in "Rapina a mano armata", ancora la pavimentazione nel processo marziale di "Orizzonti di gloria"; "Lolita" presenta fisicamente la scacchiera, così come si vede in "2001" nella partita fra i due astronauti mentre "Arancia meccanica" ripropone scenografie a scacchiera come il Korova milk bar e l'anticamera dello scrittore Alexander) è un aspetto evidente-emergente da considerare solo come la punta di un iceberg. Non è amorevole citazione quella che ci propone il cinema di Kubrick quanto il segno indiziale che ci permette di analizzare come la sua mentalità registica sia fortemente orientata e strutturata sul modello scacchistico.

Ricordando che "l'ossessione principe" in Kubrick è quella del controllo (logistico, totale, "napoleonico") risulta ancora più evidente la specularità e la "simbiosi" tra la figura del regista-autore e quella dello scacchista. La maniacale ed ossessiva preparazione del profilmico procede in stretta connessione alla concezione formale dell'opera, venendo "liberamente" a creare un testo audiovisivo "totale", che non celi le tracce dell'operazione kubrickiana. Raffreddando ogni storia (e la Storia) attraverso l'esplicito utilizzo del proprio medium, Kubrick porta avanti una "strategia autoriale" del discontinuo basando il montaggio sul principio di commutazione o costruzione modulare, una creazione con dei buchi, dei salti, delle interruzioni, che esplora e svela la profonda affinità tra le due arti in questione. Il processo mentale che genera le immagini è invisibile e riesce a mostrarsi-attuarsi attraverso il montaggio "dei salti" per raccordi successivi, così come la mossa giocata (e già ideata) dallo scacchista affermandosi cancella tutte le altre possibilità di scelta.

La scacchiera diventa così il paradigma dello spazio scenico dove il demiurgo pone e "aziona" le proprie figure costruendo un universo autonomo, dinamico e finito, che non può sfuggire alla logica insita all'atto creativo stesso. L'operazione kubrickiana, riproducendo nel Cinema i meccanismi logico-strategici degli scacchi, è doppiamente significante: come ogni film presenta un sistema logico-razionale che entra in crisi (la rapina-strage in "The Killing", HAL 9000, il controllo degli istinti e della violenza in "Arancia Meccanica", il tentativo di dominare la propria storia in "Barry Lyndon", la perfetta fabbrica di killers in "Full Metal Jacket) e che impotente subisce "lo scacco" della Storia, così è da considerarsi equivalente l'operazione di "scacco" che Kubrick compie nei confronti di tutto il Cinema (precedente passato e futuro) attuando la propria strategia registica:

«Tra le molte altre cose che gli scacchi vi insegnano c'è il fatto di controllare quell'emozione iniziale che provate quando vi accorgete che una mossa sembra buona. Vi esercitano a riflettere prima di eseguirla e a pensare con la stessa obiettività quando siete nei guai. Quando si gira un film si devono prendere la maggior parte delle decisioni di corsa... riflettere per pochi secondi può spesso impedire che si commetta un grosso errore in qualcosa che di primo acchito sembrava funzionare».

«La pellicola superficiale del visibile non è se non per la mia visione e per il mio corpo. Ma la profondità, sotto questa superficie, contiene il mio corpo e contiene quindi la mia visione; il vedente, essendo preso in ciò che vede, vede ancora se stesso».

Sebbene la decisione presa nel '23 da Duchamp (ultimato il Vetro) di abbandonare la produzione "artistica" per dedicarsi interamente al gioco degli scacchi possa sembrare volutamente "forzata" – come già il carattere iconoclasta del movimento Dada – è lucidamente esemplificativa della concezione artistica che sta(va) sviluppando, come notato durante le conversazioni da P.Capanne: «Mi sono chiesto se [...] i gesti che muovevano le pedine nello spazio non suscitavano forse delle creazioni [...] immaginarie che, secondo lei, avevano tanto valore quanto quelle delle creazioni reali dei suoi quadri e, inoltre, stabilivano una nuova funzione plastica nello spazio».

La partita di scacchi come "opera d'arte totale" e moderna (verrebbe da aggiungere) per il carattere esclusivamente concettuale delle operazioni necessarie all'es(i)s(t)enza e alla conduzione del gioco. Questa analisi, che parte dalla passione intellettuale per un gioco e azzarda un accostamento quanto meno pericoloso – se non addirittura deviante – ha lo specifico intento di portare l'attenzione su alcuni aspetti dell'operare duchampiano che ne allargano infinitamente la portata del discorso e che investono direttamente (stravolgendoli) il concetto di arte e di realtà stessa.

«Prima ancora di qualsiasi analisi, interpretazione o anche descrizione, il primo gesto di una teoria dell'arte (supponendo che una teoria sia possibile) è di scommettere sul paradigma, accettare una varietà di paradigmi relativizzando al tempo stesso le loro portate rispettive».

Paradigmatica è allora, in ambito d'arte contemporanea, l'opera di Marcel Duchamp e in modo specifico gli artefatti di propria invenzione: i readymades. Se già il tentativo di definizione dei tali permette all'analisi una interpretazione deviante, ci limiteremo ad accoglierne i vari sensi e significati: il readymade è un oggetto, un gesto artistico, l'oggettivazione di un idea o di un intenzione, un'opera che esiste, si mostra e si enuncia come arte. Il paradigma del readymade è la riduzione dell'opera alla sola enunciazione: questo è arte. Dove l'enunciazione si pone come fondamento ontologico della possibilità di esistenza dell'arte. Il readymade presuppone quindi le stesse condizioni enunciative di un quadro, una statua, una scena. Le stesse possibilità di instaurarsi come oggetto d'arte, la possibilità di soddisfare le quattro condizioni enunciative del discorso artistico: oggettuale, soggettuale, "mostrativa" e istitutiva, cioè la compresenza di un oggetto, un autore, un pubblico ed un istituzione che lo registri come tale.

«È in questo che il readymade è paradigmatico. Ciò che dice nella sua singolarità, lo dice per l'opera d'arte in generale. Le condizioni enunciative che indica come sue proprie non sono l'eccezione ma la regola, la formula minima messa a nudo, dell'enunciazione artistica, anche».

La prima condizione necessaria all'enunciazione del discorso artistico si presenta chiara negli appunti della Scatola Verde: «Precisare i readymades progettando per un momento futuro di iscrivere un readymade. Il readymade potrà essere cercato in seguito. L'importante è allora dunque questo orologismo, questa istantanea, come un discorso pronunciato in occasione di una cosa qualsiasi ma alla tal ora. È una sorta di appuntamento».

«La parola arte significa fare. Fare è scegliere e sempre scegliere. La parola arte significa scegliere».

L'artista, così come l'opera-oggetto, non possono sussistere se non in relazione reciproca a se stessi. Il momento dell'incontro autore-oggetto e della reciproca "scelta" instaura i due elementi in un ambito che non è propriamente del reale quanto del simbolico, è l'astrazione dei "dati". Sebbene sia evidente l'impossibilità di una totale assenza di gusto nella scelta autoriale, escludendo questa metodicamente si ottiene un "caso in conserva" che rovescia il presupposto dell'autorship. Abbandonata l'idea della fabbricazione attraverso la scelta di oggetti readymade ciò che diventa emblematico dell'incontro autore-oggetto è allora l'atto nominativo della cosa. Questo atto nominativo che oggettivizza e istituisce l'incontro si sottopone in Duchamp a tutte le varianti del nominalismo pittorico, affrontando tutti i rapporti in atto tra un oggetto e il suo nome: tautologia, metafora, sineddoche, allegoria, anagrammi, acrostici e giochi di parole.

«Dopotutto il pubblico rappresenta la metà della questione, sono gli osservatori a fare i quadri. Do la stessa importanza a colui che guarda un'opera come a colui che la fa».

Di fronte ad un readymade non esiste distanza tra l'artista e lo spettatore, nessuno dei due l'ha fatto ma entrambi l'hanno incontrato. L'operazione duchampiana assume un valore superlativo sotto l'aspetto della fruizione; la sacralità dell'arte, feticcio di ogni osservatore, totalmente sconfessata dai readymades, pone lo spettatore in una impasse senza soluzioni: l'opera non espone in fondo se non il feticcio in cui cadono tutti gli sguardi. L'arte si ri-afferma a partire dallo scacco inoltrato all'Arte.

«Il readymade è una cosa che non si guarda neppure».

Così comincia la vita pubblica ed istituzionale dei readymades, esposti nel '16 a New York e passati totalmente inosservati. Ma l'anno seguente la Society of Indipendent Artist, tra le prime iniziative, decide una grande mostra all'insegna della massima democrazia e rappresentatività: nessuna giuria, nessun premio. Duchamp sceglie l'ordine alfabetico come criterio espositivo puntando sul caos e il disorientamento generati dall'accostamento di artisti accademici e d'avanguardia. Questa esposizione fa esplodere il caso Richard Mutt, esemplare per mostrare come si riuniscono e si effettuano le condizioni dell'enunciazione artistica al punto d'incontro di un oggetto e un'istituzione. Duchamp, dopo aver fatto circolare la voce che avrebbe esposto un quadro cubista ispirato ai tulipani, presenta invece un orinatoio titolato Fountain, prodotto dalla ditta J.L.Mott Iron Works. Fountain è giudicato privo di valore estetico e morale e, sebbene abbia pagato i due dollari d'ingresso, viene soppresso e nascosto dietro una tenda. Alle dimissioni di Duchamp e Arensberg segue la provocazione della rivista The Blind Man che presenta la foto di Fountain scattata da Alfred Stieglitz e la seguente dichiarazione: «La fontana di Mr.Mutt non è immorale o, perlomeno, non più di quanto non lo sia una vasca da bagno.[...] Che Mr.Mutt abbia costruito o meno la fontana con le proprie mani, non ha nessuna importanza. Lui l'ha scelta. Ha creato insomma un nuovo pensiero per quell'oggetto».

Con il caso Richard Mutt la paradigmaticità del readymade si oggettivizza-mostra producendo la consapevolezza del readymade come paradigma, come enunciato "questo è arte". La Fountain soddisfa pienamente le quattro condizioni che abbiamo visto come necessarie per la possibilità dell'enunciato artistico: l'oggetto è dato, è un orinatoio. L'enunciatore esiste, ha scelto, intitolato e firmato l'oggetto. L'osservazione "meccanica" dell'apparecchio fotografico rilancia l'enunciato per proprio conto: Photograph by Alfred Stieglitz. Fountain non ha altra esistenza che quella di referente perduto di una foto (pittura readymade) che attesta la sua esistenza. Anche se non legittimata dall'istituzione l'opera risponde alle condizioni enunciative di cui il readymade stabilisce il paradigma.

«Qualcosa è un'opera perché è fatta a mano dall'uomo, perché la mano che l'ha fatta è individuale e vi lascia tracce del suo modo, perché si dà a vedere ed è bella, sublime, significante o anche semplicemente interessante, perché il suo valore è riconosciuto».

Dopo l'idea della fabbricazione e dello sguardo, ciò che cade all'incontro dell'opera e dell'istituzione è il concetto stesso di opus, l'opera come spettacolo per l'osservatore e come valore istituito. Se un oggetto è arte solo in quanto referente dell'enunciato "questo è arte" e il patrimonio artistico mondiale non ha in comune altro che l'enunciato "questo è arte", il readymade in quanto atto mentale si pone come paradigma stesso del fare arte, del fare "arte a proposito dell'arte".

«Non gli è bastato affrancarsi dal giudizio dell'Altro imponendo egli stesso la sua nozione di valore [...] Ha spinto l'insolenza fino a rovesciare la situazione, fino a schernire e prendere in trappola l'Altro, infliggendogli una privazione, un rifiuto, un'assenza».

Roma, 3 Giugno 2007