La Critica

La Provocazione Fagocitata ed il Libero Fluire dell'Anima delle Cose

di Emanuela Mennechella
"Il quadro... Perché non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta?…non c'è nulla da dire: c'è solo da essere, c'è solo da vivere".[1]

Chiudere l'arte in un circuito commerciale affibbiandole un valore, una determinazione numerica o costringerla in un oggetto a sé stante implica la sua morte. La creatività umana non può ridursi ad un'esposizione in vetrina o all'autocelebrazione dell'artista. Credo che, nella sua purezza, l'arte sia un costante impegno nel mondo, che debba agire nell'ambito sociale, che la sua essenza risieda nella attiva partecipazione alla vita. Le Avanguardie hanno dato un impulso in questa direzione, la loro ripresa a metà del secolo scorso ne ha rivitalizzato i principi migliori, con esperienze di artisti che hanno fatto uso di vari mezzi d'espressione.

La Ruota di bicicletta (1913), primo ready-made di Marcel Duchamp, il Portabottiglie (1914), l'Orinatoio-Fontana (1917), sono stati dei gesti anarchici: opere che volevano rompere con tutti i luoghi comuni del fare artistico tradizionale, oggetti qualsiasi che hanno acquistato un valore estetico attraverso il gesto-provocazione dell'artista, la sua scelta: l'atto. L'effetto voleva essere quello di disincantare il pubblico, dissacrando gli stereotipi del mondo artistico e non, ma non si è ottenuto questo risultato. Così Duchamp:

"Lorsque j'ai découvert les ready-made, j'espérais décourager le carnaval d'esthétisme. Je leur ai jeté le porte-bouteilles et l'urinoir à la tete comme une provocation et voilà qu'ils en admirent la beauté esthétique".[2]

L'orinatoio di Duchamp è un esempio, la "Merda d'artista" (1961) di Piero Manzoni ricalca lo stesso schema. Perché quelle che volevano essere provocazioni si sono ritorte contro gli stessi provocatori? Forse in un certo senso la provocazione conteneva già in sé la possibilità di essere ridotta a oggetto di contemplazione indifferente, forse conteneva già in sé il suo annientamento, la sua autocelebrazione. In un mondo di superficiale scintillio anestetizzante, come quello in cui viviamo, il rischio è ancora più grande. Ecco allora perché vedo l'arte come gioco: giocare è conoscere, curiosare, prendere contatto col mondo, fantasticare, liberare le nostre intuizioni, lasciarsi affascinare dal mondo, viverlo. Un movimento di estraniamento prima e ritorno consapevole a sé e al mondo poi.

"Tutto deve partire da questo sconfinare dal corpo, dal quadro, dallo spazio mentale, non per uscire semplicemente da essi, ma per trovare al di là di essi la loro stessa fisionomia".[3]

Sia che si vogliano analizzare le sue opere pittoriche e materiche, sia che si parli di film o scatole, tutta l'arte di Gianfranco Baruchello si basa su un processo di continua ricerca, inquieta per essenza, di esplorazione dell'incerto, di messa in gioco di sé stessi.

"È un fare sfuggente, che ama inabissarsi nelle cose, nel dubbio, nell'interrogativo, senza restare in essi a lungo."[4]

È l'esigenza di sentire l'arte come prossima alla vita, dove figurano esperienze vissute e le immagini seguono le linee di un pensiero che non si irrigidisce in uno schema. Uno spirito giocoso ma anche pungente ed impegnato; nel 1966 realizza il Multipurpose Object, un oggetto meccanico a carattere pacifista "per il rilassamento delle forze armate degli Stati Uniti", che offre al Pentagono con lettera e dossier fotografico annessi. Sullo stesso genere è un'operazione del 1968, Artiflex, dove l'artista mima i termini di un'industria: costituisce una falsa società che "mercifica tutto" ed offre diversi tipi di prodotti, quali "la razione di sopravvivenza per naufraghi, la maglia lunghissima, la mezza giacca con la sola parte sinistra…".[5]

L'idea del "teatro-pacco", contenitore di svariati oggetti, frasi e altro, era poi un modo di relazionarsi con il mondo, di suscitare reazioni, di scuotere, come l'idea della "Prigione privata", secondo cui chiunque poteva imprigionare un oggetto, un'immagine in una prigione privata gestita da Artiflex. Questi gesti provocatori e dissacranti volevano scuotere l'artista e il fruitore, andare contro i principi dell'industria e dell'arte che tendeva ad imitarla. Nel 1973 fonda l'Agricola Cornelia S.p.a., società regolarmente costituita "con lo scopo sociale di coltivare la terra"; l'idea è quella di riuscire a verificare l'ipotesi che la "creatività" non è altro che "la capacità di sopravvivere alla natura e al potere".[6]

Essere artista allora è una condizione esistenziale, implica che la vita vissuta ne sia elemento fondante, l'aspetto umano non è secondario. Di recente ho potuto conoscere l'artista Mario Nanni e venire a contatto con la sua opera, che è anche visione del mondo. Grazie a Nanni mi sembra di aver individuato una caratteristica essenziale di questo discorso sull'arte: la provocazione della sua opera non risiede in un gesto clamoroso, ma nella partecipazione sentita alla vita, nell'aperto contatto con l'Altro, in un'umanità forte. Nel 1969/70 Nanni partecipa ad eventi che mettono al centro del discorso artistico il rapporto col sociale, lo studio antropologico, la relazione col mondo.

La mostra «Amore mio», tenutasi a Montepulciano (1970), si era definita una "manifestazione di comportamento umano", dove travalicare la condizione soggettiva degli artisti per una presenza interindividuale. Così «Al di là della pittura», manifestazione di San Benedetto del Tronto (1969), proponeva un'arte da toccare con mano e da vivere, con interventi diretti anche sulla città e sul modo di percepire l'ambiente circostante. Mario Nanni partecipava con un'interessante allestimento di una sala con anelli metallici di differenti diametri in sospensione nello spazio, uniti da molle, dove lo spettatore, invitato ad aprirsi un passaggio, generava un'intensa emissione di suoni. Un'environment praticabile, con l'invito a percorrerlo, a vivere un'avventura psicosensoriale. Il senso ludico, gioioso, di partecipazione umana che tale opera assume pienamente in sé, la avvicina al "sentire" proprio di Fluxus, e manifesta una grande sensibilità non limitatamente artistica. "Solo una profonda umanità può essere alla base di una comunicazione così spontanea e diretta"[7]: nel catalogo di «Al di là della pittura» Pierre Restany sottolineava così il modo d'essere di questo, a mio parere, grande artista, dove per "grande artista" intendo la non comune capacità di calarsi pienamente nella vita, di saper partecipare del senso più profondo dell'esistenza. Dico questo anche ripensando alla descrizione da lui fattami due anni fa di quest'opera e all'aneddoto che meglio ha esplicato il senso di essa. Nanni affermava che la saletta aveva scatenato l'entusiasmo soprattutto dei bambini che, salendo dalla spiaggia, trovavano un luogo di magia che subito si trasformava in possibilità di sfogo.

Il problema oggi è la scissione che si va accentuando tra le trasformazioni tecnologiche, con un ritmo ipervelocizzato, e la riflessione sulle metamorfosi sociali ed esistenziali che esse provocano. Tendono a predominare logiche che ci propongono una vita "impacchettata", rafforzando l'idea che queste offrano il modello predominante se non l'unico. L'impostazione che viene data alla visione della realtà è quella di una successione di flash, di brani che non permettono una visione totale delle cose che viviamo e, conseguentemente, nega una possibilità di comprensione, di consapevolezza delle trasformazioni in corso. Tutto questo rende ancor più difficile l'elaborazione di modelli alternativi di vita. L'evoluzione continua della sfera tecnologica non può lasciarsi indietro una riflessione "spirituale", sociale, umana, un'esperienza meditativa. Il rischio di confondere il mezzo con il percorso è elevato. Credo che le cose "semplici" possano venire in qualche modo in nostro soccorso, come boccate d'ossigeno.

"Celebra all'angelo il mondo (…). Mostragli allora la semplice cosa, che, plasmata di generazione in generazione, come cosa nostra vive, presso la mano e lo sguardo. Digli le cose. Ne sarà stupefatto (…).[8]

L'aspetto poetico del reale non è isolamento dal mondo, non imbelletta la realtà, non rifugge dalle problematiche della quotidianità. È una visione sentita, un'intuizione da verificare, una comunione con il mondo, una possibilità di comunicare un modo di sentire, un'utopia anche, ma con una forte presa di contatto col reale. È necessario che l'arte digerisca la cultura d'avanguardia, allontanandosi dal suo carattere elitario, prendendone lo spirito critico ma superando le barriere sociali, che si renda più umana. Vito Acconci ha sviluppato un lavoro che si impernia sul non detto e sul "sentito", sin dal 1968/69: l'intento è quello di valorizzare un tipo di comunicazione fatto di un linguaggio senza parole, per sintonie fisiche. "Ho usato il video come un elemento, uno spazio, una posizione, in una relazione persona-persona, faccia a faccia…", e ancora: "…spero che l'opera non venga sentita come un monumento, che deve essere conservato, ma come una strada, come una città, che cambia col tempo seguendo le condizioni della società".[9]

Non esiste una connessione tra l'essere artisti ed avere firmato un quadro o un oggetto che poi viene custodito in un museo; penso che lo spirito di ricerca, il gioco, l'atteggiamento estatico della poesia debbano nutrire l'arte e l'evoluzione del nostro rapporto quotidiano col mondo. Molti portano avanti questo spirito, sono "artisti" e non sanno di esserlo, applicando quotidianamente dei principi, dei valori passati attraverso molta arte del secolo scorso, facendola scendere dal piedistallo che la rende distaccata e la priva della sua vitalità ed essenza. L'arte non deve essere di pochi, deve poter parlare a più persone possibili e porsi come obiettivo principale quello di renderci uomini liberi.

Ancona, 20 marzo 2004


Note

[1] Piero Manzoni, in "Azimuth", n. 2, gennaio 1960. Riferimento in Luciano Caramel (a cura di), Arte in Italia negli anni '70 (Verso i settanta 1968-1970), Milano 1996, p. 13.

[2] Philippe Sers,  "Notes sur la modernité" , in Le dialogue avec l'œuvre. Art et critique, Bruxelles 1995, p. 20.

[3] Carla Subrizi (a cura di), Baruchello, Roma 1997, p. 22. Il catalogo della mostra, tenutasi a Roma, 25 marzo-23 aprile 1997, contiene i seguenti saggi: Maurizio Calvesi, "Con Baruchello in mare aperto", Di Marino Bruno, "Costretti a (non) scomparire", Gianfranco Baruchello, "The wisdom of insecurity".

[4] Carla Subrizi (a cura di), Baruchello Fuoricampo, catalogo della mostra, Comune di Livorno 1997, p. 14.

[5] Tommaso Trini, Introduzione a Baruchello: tradizione orale e arte popolare in una pittura d’avanguardia, Ed. Schwarz, Milano 1975, p.67.

[6] Carla Subrizi (a cura di), Baruchello, Roma 1997, p. 49.

[7] Gillo Dorfles, Luciano Marucci, Filiberto Menna (a cura di), Al di là della pittura, catalogo della mostra, Firenze 1969, sezione "Esperienze al di là della pittura".

[8] Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, a cura di Franco Rella, p. 93, Bur/Rizzoli, 1994.

[9] Vito Acconci, in "Vito Acconci, una testimonianza", a cura di Alessandra Cigala, in Valentini Valentina (a cura di), Cominciamenti, Taormina 1988, p. 77. Sempre all'interno di Cominciamenti vedere Vito Acconci, "Note sul mio uso del video", p. 75.