La Critica

L'arte come gioco: per una presa di coscienza

di Emanuela Mennechella
«C'est à l'art... que reviendra la tache exaltante et ingrate d'expliquer l'homme à l'homme transformé de fond en comble par ses propres inventions ».[1]

All'interno del dibattito critico, e della sua presa di posizione per un'espressione artistica o un'altra, il reale problema può essere riflettere su cosa s'intende innanzitutto per arte. Le mutazioni culturali, politiche, sociali, percettive che stiamo attraversando richiedono un diverso modo di affrontare l'esistenza; l'instabilità, la precarietà, il mutamento, la perdita di equilibrio, la vertigine, il caos sono entrati nell'esperienza quotidiana.

Se questa è «L'epoca in cui occorre sapersi perdere per potersi ritrovare»[2] allora l'arte dovrebbe cercare di renderci più consapevoli dei mutamenti in corso per renderci più liberi. Proporre una via di fuga, una possibilità di vivere criticamente e umoristicamente la nostra visione, superando le categorie dettate da cerebralismo per un contatto più diretto con le cose, più fisico, più giocoso. La figura dell'artista sfugge così a giudizi puramente estetici e diviene una sorta di sperimentatore del cambiamento, vuole farci vivere il labirinto moderno, indicare una direzione possibile, non l'unica.

Non arte da museo, dunque, ma votata all'instaurazione di nuove relazioni umane e alla diffusione d'idee differenti con maggiore libertà, insieme ad una più diretta consapevolezza del vivere quotidiano. È l'umorismo sempre aperto al confronto, non arroccato in prese di posizione dogmatiche, capace di valersi della consapevolezza della molteplicità dei punti di vista per smascherare le certezze delle ideologie. Tutti possono essere artisti, nel momento in cui ci s'immerge con spirito giocoso e critico nella realtà. Così la pensava Allan Kaprow:

«Fare arte vuol dire non fare arte. Il mio lavoro consiste nel giocare; a volte gioco con le nuvole del cielo: questo è fare arte! Voi date all'arte una qualità più alta, io no. Per me, arte sperimentale è dimenticare l'arte (non rigettarla) perché io non penso all'arte ma alla vita vissuta coscientemente (non come routine)».[3]

Studente di matematica e musicista di formazione, l'attività di Giuseppe Chiari in ambito artistico è, dall'inizio degli anni '60, rivolta a sottolineare la non professionalità come possibilità di portare avanti un'esperienza autentica:

 «Lavora
tu sai disegnare
loro hanno i musei
loro dicono che non sai disegnare
ma non è vero
ma non ci sono solo i musei
tu sai disegnare
ci sono anche i tram
stai tranquillo...
»[4]

L'artista è in attesa dell'evento, di una rivelazione della vita stessa, vuole trasporre nell'opera la vitalità della vita vissuta. Questa visione dell'arte non è affatto ingenua, né facilmente digeribile ed attuabile. Non è così immediato avere una maggiore percezione del proprio corpo e del proprio esser-ci, dello spazio in cui ci si muove, facendo interagire i sensi, evitando di affidarsi totalmente al senso della vista o ad una sola visione del mondo.

Dentro modelli che ci propongono di vivere con un atteggiamento alienato ed anestetizzato, la velocità ed il simulacro spesso ci rendono possibile la conoscenza delle cose solo nella loro superficie, senza penetrarle. Mi piace pensare allora che l'artista affondi la mano oltre lo strato superficiale e, in bilico fra ciò che vediamo e l'invisibile, ci comunichi le sue sensazioni e le trasmetta per farle vivere anche a noi; perché forse non avremmo avuto il coraggio di farlo o forse ci sarebbe sembrata una perdita di tempo o ancora, distratti, non avremmo notato che non c'è una sola via possibile, quella che c'è stata indicata.

 «Se le cose del mondo, e l'io stesso, abitano in una zona di frontiera fra il tempo e l'extratemporale, l'opera d'arte è ciò che riesce a dare forma a questo "fra", a questo mondo di mezzo, a questa soglia, in cui tutto sembra transitare inafferrabile dall'una all'altra dimensione».[5]

Arte come esplorazione, viaggio, ricerca, immersione totale nell'Altro. Arte come tentativo di aprire un varco,

 «...di scoprire uno sbaglio di natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità...»
[6]

Arte come strumento di consapevolezza, momento di ludica critica al reale, atto d'immersione nella vita, nella realtà. La soggettività della percezione implica per ciascuno la propria misura del mondo, e la comunicazione di tali varie misure definisce la realtà. Gli artisti trasmettono i loro individuali "métres-étalon"[7], le loro individuali visioni del mondo e le fanno interagire: scambio essenziale per una ricerca creatrice. È la proposta di un infinito confronto, una dialettica votata ad una maggiore comprensione di noi stessi e di ciò che ci circonda, sulla base di una tolleranza per le multirealtà che di fatto sussistono.

 «L'alternativa- allora - non è tra la pittura o scultura e l'audiovisivo, ma tra le potenze creatrici e il potere di addomesticamento».[8]

Ancona, 14 Febbraio 2004


Note

[1] Derrick De Kerckhove, Sur quelques conditions esthétiques de l'art virtuel, saggio all'interno del libro di Mario Costa e Paul Ginsborg (a cura di), Nuovi media e sperimentazione d'artista, Napoli 1994, p.63.

[2] La citazione è di Paolo Rosa, in un'intervista sul sito www.undo.net, sotto la voce Studio Azzurro.

[3] Bonazzi Francesco, «Allan Kaprow», Juliet n. 85, dicembre/gennaio 1997, in www.undo.net.

[4] Giuseppe Chiari, Music is Easy, Firenze, 1983, riferimento in Paolo Thea, "Fluxus/Italia", in Bonito Oliva Achille (a cura di), Ubi Fluxus ibi motus, Milano 1990, p. 312.

[5] Franco Rella, Asterischi, Feltrinelli, Milano 1989, p. 49.

[6] I limoni di Eugenio Montale, tratta dalla raccolta Ossi di seppia edita da Mondadori, Milano 1991, p. 10.

[7] Don Foresta parlando di un'opera di Marcel Duchamp, Trois stoppages - étalon, evidenzia l'esistenza di modi diversi di misurare il mondo. Don Foresta, «Comunicare realtà individuali», in Arte e scienza, catalogo generale 42esima esposizione internazionale d'arte La Biennale di Venezia, Electa, Milano 1986, p. 39.

[8] È quanto afferma Gilles Deleuze in Paul Virilio, La velocità di liberazione, a cura di Ubaldo Fadini e Tiziana Villani, Milano 2000, p.12.