La Critica

Meditazioni sui 100 metronomi

di Ilenia Buzzi
«Lo ideai a Vienna nel 1962. Quando battei a macchina il progetto del pezzo su un foglio di carta, non pensavo che venisse mai eseguito. Era una bella idea. Mi ero immaginato il suono di cento metronomi che si fermavano uno dopo l’altro. Cento era solo una cifra approssimativa: pensavo ad un numero sufficiente di metronomi perché il rumore, inizialmente uniforme, desse luogo successivamente a costellazioni ritmiche che mutavano a poco a poco» [György Ligeti].

L’atto d’ideazione accoglie in sé sempre qualcosa di non raccontabile. Ma è proprio qui, nelle parole di Ligeti, che ho individuato l’inizio di un percorso che può farci cogliere l’idea che la sua opera sottende. Ancor prima di crearlo, il Poème symphonique, Ligeti lo ideò, con un’imprescindibile progettualità. E se questa ideazione sia assimilabile a quella sorta di appetito di cui parla Stravinskij e che si suppone all’origine di ogni creazione, non è facile dirlo. Per ora sappiamo solamente che questa idea determina già il problema della forma. Non a caso, seguendo ancora lo Stravinskij della Poetica della Musica, scopriamo che «la pregustazione dell’atto creativo accompagna l’intuizione di un’incognita già posseduta, ma non ancora intelligibile, e che sarà definita soltanto dallo sforzo di una tecnica vigile».

Tutto ciò si incarna in una logica che infrange le gerarchie e che pone lo sforzo spirituale, psicologico e fisico sullo stesso piano. In fondo la musica è ciò che unifica e questa unità ha la sua risonanza. Non ci dice Deleuze che ogni idea è già votata a questo o a quel dominio?

Eppure, interrogarsi sulla genesi di un’opera che porta il nome di Poème symphonique non ci libera dal supplizio degli interrogativi di fronte al quale ci troviamo ogni qualvolta affrontiamo una materia così complessa ed inesauribile. Porsi degli interrogativi di carattere estetico-filosofico circa quest’opera vuol dire anche scardinare il rapporto che intercorre tra il linguaggio musicale e le arti plastiche, tra lo spazio e il tempo; un rapporto intermittente sul quale molta musicologia dovrebbe rivedere se stessa.

Il punto di partenza si presenta già con un carattere biunivoco, poiché due sono le coordinate attraverso le quali mi muoverò: il movimento e la temporalità, i due termini di una diavoleria dialettica che permeano l’intera opera di Ligeti. Questo studio, pertanto, seguirà un andamento erratico, configurandosi come un tentativo di far emergere qualcosa che eccede sempre la descrizione.

Ma come tradurre tutto ciò in un linguaggio? Come racchiudere in una forma ciò che più di tutti si dà come transuente, ovvero la profonda realtà del suono? Il suono è una totalità inafferrabile, e nulla è più vicino e allo stesso tempo più lontano delle parole che ne dicono il senso.

Ligeti spiega il suo Poème symphonique «cerimoniale musicale» per 100 metronomi (azionati da 10 musicisti guidati da un direttore) facendo ricorso alla scienza, quell’interesse che per sua stessa ammissione fu per tutta la vita fonte inesauribile di intuizioni, assimilazioni, accostamenti; in particolare il compositore si richiama alla fisica – l’astrofisica – e alla genesi dell’universo.

In principio era il caos. E l’idea del caos in Ligeti è affidata paradossalmente allo strumento “ordinatore” per eccellenza: il metronomo meccanico. Quel metronomo, destinato a scandire e quindi misurare il tempo e che nell’opera in questione finisce invece per formare una massa sonora pressoché omogenea e apparentemente statica, rappresenta assurdamente l'entropia dell'universo.

Ligeti, il compositore delle grandi fasce sonore sovrapposte entro le quali successioni di minimi eventi generano quella micropolifonia che è forse il suo tratto più caratteristico, delega l’idea del caos al ticchettio contemporaneo di cento metronomi che, impostati su velocità diverse e caricati in maniera differente, creano, con la molteplicità dei loro gesti meccanici, un addensamento iniziale capace di annullare ogni scansione ritmica temporale.

Ma solo in principio fu il caos. Poi qualcosa intervenne a porvi rimedio e a creare ordine. Così i metronomi di ligeti cominciano a fermarsi, esaurendo la loro implacabile spinta ritmica; il totale sonoro iniziale ne risulta minato e compromesso, delle microfratture cominciano ad apparire nel fitto tessuto compositivo dell’opera e i click metronomici iniziano a raggrupparsi, addensarsi – come a cercar conforto gli uni con gli altri – per tornare poi ad essere distanti e a gravitare nella molteplicità delle proprie promiscue orbite.

Si fermano i metronomi di Ligeti, si escludono, si tirano fuori da quell’evento che solo in apparenza sembra procedere per sottrazione ma che in realtà finisce per aggiungere ad ogni istante quella componente che è stata finora assente: il ritmo.

Il kronos, l’ordine, si palesa soltanto in chiusura della composizione, quando ad un unico metronomo è affidato l’assolo che porta a conclusione il brano, amplificandone il silenzio ed un certo senso di inquietudine che non riceve soddisfazione dalla sopraggiunta venuta dell’ordine universale, e che trova anzi il suo acme nel momento in cui anche quest’ultimo esecutore meccanico cessa di cliccare, cedendo il luogo ad un’assenza-di-suono definitiva e terrificante perché foriera di chissà quali incognite attese.

Nonostante nessuno degli esegeti di Ligeti sembri andare in questa direzione, appare naturale, quasi istintivo, ravvisare nel Poème symphonique (1962) una fortissima analogia con opere composte all’incirca negli stessi anni quali Apparitions (1956-59), Atmosphères (1961), Aventures e Nouvelles Aventures (1962-65), tutte composizioni inquadrabili in un itinerario che porterà fatalmente a Lontano (1967) [Es. fig.1] e, per altri versi, a Continuum per clavicembalo (1968).

Tratto comune a tutte le opere appena citate è l’essere state concepite sul principio dell’elaborazione di una trama multipla, risultante dalla simultaneità di avvenimenti sonori microscopici percepibili in funzione della pressoché totale assenza di macro-eventi all’interno della composizione stessa; è soltanto a questa condizione infatti che l’ascoltatore riesce ad affinare i propri sensi e a “sintonizzarsi” sui micro-eventi che increspano la superficie sonora dell’opera.

La micropolifonia, il concetto di “spettro”, i quarti di tono, i clusters, l’uso non convenzionale delle voci e dell’orchestra, le note-punto ribattute ad elevatissima velocità [Es. fig.2], sono tutti mezzi che concorrono a formare tale trama globale che solo in apparenza, e agli orecchi meno analitici, può essere considerata statica, giacché in realtà essa rappresenta la palese incarnazione del concetto stesso di movimento inteso come perpetuum trasformativo, come assembramento di costituenti tesi senza sosta – e senza possibilità di successo inteso in maniera tradizionale – al raggiungimento della propria forma.

Il suono è un fenomeno complesso e Ligeti aveva avuto occasione di sperimentarlo e di lavorare sulla propria idea di suono nel periodo in cui collaborava con Karlheinz Stockhausen e, soprattutto, con Gottfried Michael Koenig presso lo studio elettronico del Westdeutscher Rundfunk a Colonia.

Dopo una breve parentesi “elettronica” (Glissandi, Pièce électronique e Artikulation) Ligeti capisce che la resa del suo ideale sonoro non passa da quella minuziosa serializzazione dei parametri che porta ad un’indifferenza dell’armonia e una banalizzazione del carattere degli intervalli – e in questo Ligeti è assolutamente in controtendenza rispetto alla maggioranza dei propri colleghi contemporanei – ma attraverso l’indagine della materia sonora stessa, tramite il tentativo di penetrare il suono per scoprirne i modi, le rese, le impurità, e nel vasto arsenale timbrico dei moderni – e non – strumenti musicali Ligeti si muove a proprio agio e sembra trovare in essi, o nel loro impasto, tutto ciò di cui ha bisogno – suono o rumore che sia – per tessere la trama e l’ordito dei propri arazzi musicali.

Se in Apparitions tale tessitura finisce efficacemente per soffocare l’aspetto ritmico dando luogo ad una “musica che riposa completamente in se stessa”, nel Poème symphonique Ligeti sembra voler andare oltre, disadobbando la propria opera perfino dell’elemento melodico/armonico e applicando stavolta al mero aspetto ritmico la già sperimentata tecnica costruttiva additiva, basata sul suono complesso reso dalla sovrapposizione di bande sonore.

In virtù di quanto detto fin qui, ciò che ha richiamato la mia attenzione durante l’analisi di quest’opera è senza dubbio la tematica del movimento da una parte e quella della temporalità dall’altra. Per quanto riguarda il primo elemento si potrebbe già dire che l’utilizzo del metronomo di Maelzel come elemento formale nel Poème symphonique, dando origine ad una serie di riflessioni estetico-scientifiche sul movimento e ponendosi peraltro nell’ambito del parallelismo tra la meccanica e l’espressione artistica, potrebbe mostrare dei possibili legami con l’uso del movimento nelle arti cinetiche degli stessi anni.

Infatti è già Popper ad informarci che in queste arti l’interesse per il movimento, reale o virtuale, traluce da una molteplicità di fonti rintracciabili nelle teorie dell’informazione, concernenti le nozioni di entropia e di ridondanza, nel progresso delle tecnologie, nel perfezionamento degli automi, nella cibernetica e in tutte quelle teorie meccaniche che indagano i rapporti tra movimento e tempo, come il calcolo matematico del movimento, le operazioni di permutazione e infine ogni tipo di situazione combinatoria.

Al fondo del sentire comune troviamo un’estetica dinamica, che attinge imprescindibilmente al dominio della scienza e al semi-naturale, tramutatasi infine in “simbolismo tematico” o in “tecnica plastica del movimento”. Infatti, se in questo periodo la musica si contamina con la tecnologia, nelle arti plastiche, pur ravvisando dei precedenti nelle avanguardie storiche, troviamo elementi formali presi a prestito dalla musica: ritmo, durata, fraseggiato, movimento, improvvisazione e contrappunto.

I ritmi cinetici costituiscono la base di una percezione del tempo reale attraverso oggetti a “struttura variabile” azionati da piccoli motori elettrici o di orologeria. Va da sé che un approfondimento di tali correlazioni potrebbe aprire un interessante campo d’indagine, senza dimenticare che l’opera di Ligeti lascia aperte delle questioni formali sulle quali non solo gli estetologi ma anche gli artisti dovrebbero ritornare.

Quest’opera sottende dei sottili equilibri formali, che sollevano nuovamente quelle domande sul tempo e sullo spazio di cui parlavamo in apertura, e un’organizzazione meccanica che, in linea con numerose opere, introduce il parametro temporale nel campo delle arti plastiche, inficiando così ogni teoria che privilegia la dicotomia tra arti del tempo e arti dello spazio.

Per la disposizione ritmica delle sue parti, il Poème symphonique si configura come costruzione cinetica, incarnando il movimento in tutta la sua pienezza plastica. E’ una superficie multipla e significante nella quale la gerarchia tra gli elementi si è assopita ed ogni automa è corpo tra i corpi.

E’ lo spazio empirico dell’assenza del kronos. E’ un’architettura dinamica di forme viventi correlate ad uno spazio che può accedere all’essere; è un corpo vibrante che reagisce agli stimoli, e che cessa di vivere solamente quando la trama si perde e l’ultimo elemento rinuncia a ripetersi. E’ la grande tensione di Ligeti che, in analogia con il neoplasticismo e non lontano dal suprematismo, consiste nell’annullare l’equilibrio statico dato dal ritmo con la sovrapposizione continua dei suoni, incarnandosi inoltre in una “composizione astratta dinamica”.

La tematica del movimento è necessaria anche per introdurre un altro argomento essenziale attorno al quale si svolge questa breve indagine: la temporalità. Tuttavia, affrontando i fondamenti del “linguaggio” musicale ci si imbatte subito in una serie di concetti che costituiscono i suoi presupposti filosofici quali: essenza interiore temporale della musica, tempo del suono come essere del soggetto o flusso della propria coscienza, tempo come pura durata, o ancora vissuti temporali; tutte definizioni rigorose che hanno avuto degli esiti creativi in musica, ma che meriterebbero ben altri approfondimenti.

Qui ci troviamo di fronte al suono puro e alla sua opacità. Se la caratteristica essenziale della musica è la sua costitutiva temporalità, intesa solamente come “tempo vissuto” da contrapporre al tempo obiettivo o meccanico, il tempo-spazio del metronomo, nel Poème symphonique invece la correlazione tra tempo e soggettività supera il dualismo bergsoniano di tempo meccanico e tempo vissuto e sembra configurarsi come una tensione imprescindibile tra questi due modi di percepire la temporalità.

Se è vero che il tempo in musica è astrazione, illusione o impossibilità di misurare concretamente il suo fluire nel tempo obiettivo con un’unità di misura, nel Poème symphonique è proprio l’unità di misura scandita da ogni singolo metronomo a creare una nuova percezione dell’ascoltatore in relazione alla temporalità, intesa non soltanto nel suo significato fenomenologico di “coscienza soggettiva del tempo”.

Ed allora quale tempo rintracciare e riconoscere nel Poème symphonique? E’ il titolo stesso dell’opera a soccorrerci: perché attribuire a questa composizione la forma del poema sinfonico, connotandola quindi come tale? Perché non fantasia, o rapsodia, o altro ancora?

Il termine poema sinfonico si riferisce ad una composizione di ispirazione letteraria, pittorica, mitica o naturalistica e rappresenta il vertice espressivo e formale della cosiddetta musica a programma; fondamentale per la corretta distinzione del poema sinfonico da altre strutture musicali è proprio il legame con un referente extra-musicale e la capacità della musica di evocare, rappresentare o narrare tale referente.

Nelle parole con le quali Ligeti motiva la scrittura del proprio Poème con la volontà di rappresentare, e quindi narrare, l’origine dell’universo sta la chiave di lettura: né tempo macchinico né tempo come durata, bensì tempo narrativo, tenendo presente che qui, in assenza della melodia, la narrazione è possibile solo grazie alla tensione insolubile che esiste tra i due tipi di tempo suddetti.

Questo tempo, profondamente aporetico, articola un ordine narrativo che, pur esigendo memoria, non implica necessariamente previsione. L’elemento narrativo è esso stesso entità formale, poiché risulta necessario al fruitore per sopperire al disincanto sopraggiunto alla morte del kronos. Di conseguenza, appare altresì troppo riduttivo parlare semplicisticamente di compresenza o transizione di entrambe le accezioni di tempo, poiché Ligeti opera uno straordinario sconfinamento dalle definizioni bergsoniane, ponendoci ancora di fronte al dilemma tempo.

Stavolta, al contrario della quasi totalità delle altre sue opere, non ci si trova dinanzi ad un segmento di suono che non ha inizio e fine e che semplicemente si da per una porzione limitata, ma si assiste ad un evento compiuto, ad un accadimento sonoro delimitato – o un assieme di micro-accadimenti – che va dall’iniziale big bang dei 100 metronomi all’angoscioso silenzio post-mortem dell’ultimo automa musicale. E’ una temporalità che racconta la sua fine, o la sua origine, poiché meditare sul senso del tempo vuol dire sempre pensare l’origine.

Ci sarà quindi possibile indagare l’origine del tempo assumendo il Poème come efficace pretesto, a patto però di tener presente l’ammonimento di Husserl stesso circa il rischio di confondere tale ricerca con la questione dell’origine psicologica del tempo, con la controversia tra empirismo ed innatismo.

Tale questione non può che esserci indifferente poiché più utile sarà invece rintracciare l’origine del tempo in quanto realtà intuita e concettualizzata, fondata su vissuti temporali intesi cioè su quelle «verità aprioriche che appartengono ai diversi momenti costitutivi dell’obiettività».

Solo ora, sulla base di questa intensa esperienza, posso cominciare ad interrogarmi sul ruolo che le due problematiche brevemente evocate occupano nell’intera concezione musicale di Ligeti, sapendo già che ogni argomento scelto è sempre un pretesto per parlare di altro.

Ma allora, come poter pensare le nozioni di movimento e temporalità nelle opere ligetiane che non utilizzano i suoni meccanici ma la notazione musicale?

La lettura dell’opera di Ligeti, in effetti, mi conduce verso altri itinerari possibili. Non potrebbe essere che il punto centrale della problematica si trovi precisamente qui, nella relazione tra questi due modi d’espressione dell’universo sonoro?

Roma, 4 Dicembre 2008