La Critica

PIETRO GROSSI

«Tornate domani, sarò diverso»

di Ida Gerosa

In una delle ultime mostre che ha fatto, a La Spezia ad aprile del 2001, Pietro Grossi si è presentato con una frase che lo rappresenta bene: «Tornate domani, sarò diverso». In questa sua frase ironica, divertita, ma espressiva, c'è tutta la sua vita, tutta la sua storia.

Grossi è nato a Venezia nel 1917, violoncellista e compositore, ha svolto attività concertistica ed è stato docente di violoncello al Conservatorio di Musica di Firenze dal 1942 al 1985, promovendo in quell'ambito anche la creazione di cattedre di musica elettronica e di informatica musicale.

Ha percorso nell'arco di tempo, dagli anni '60 ad oggi, un itinerario artistico e di ricerca tale da far emergere uno sviluppo di pensiero coerente e una serie di intuizioni fortemente anticipatrici, come il minimalismo di alcune sue opere analogiche e la teorizzazione della musica in tempo reale.

Alla metà degli anni '80 ha allargato il campo delle sue esperienze alla grafica.

Nel momento in cui componeva la sua musica, attraverso appositi programmi scritti personalmente faceva nascere i prodotti grafici, spesso in maniera "random".

La sua ricerca è quindi passata dall'accompagnamento musicale ai film muti, mentre era ancora uno studente, alle esperienze già descritte fino al suo progetto di «Homeart», da lui definito «arte creata da e per se stessi, estemporanea, effimera, oltre la sfera del giudizio altrui»; per approdare infine alla «Homebook», con cui ha inaugurato una nuova branca di ricerca e di attività, quella dell'editoria personalizzata.

Pietro Grossi è stato un artista dalle mille personalità, musicista, compositore, grafico, serio nelle sue ricerche e nello stesso tempo vivo, pieno, allegro, divertente e divertito. Ha creato con infinito amore eppure giocava, scherzava con quello che faceva, per stuzzicare i suoi pensieri. Ha ribaltato le situazioni normali per vederne gli aspetti inconsueti, per cercarne il lato curioso, sconcertante, forse "impazzito". Per questo amava ripetere che noi «siamo formiche impazzite e cerchiamo disperatamente di capire dove ci porta il bit, ma vogliamo scuotere le cicale che, attaccate alla corteccia degli alberi, gracidano immobili finché l'albero ammalato alle radici si abbatte».

E quando un giorno gli ho chiesto che significato aveva per lui la mostra che stavamo per fare insieme, mi ha risposto «per parte mia, ogni mostra sottolineerà la velocità e la produttività del bit. Quindi si vedranno immagini in continua elaborazione e trasformazione». E poi «Come sarà accolto il nostro lavoro? Difficile dirlo. Operiamo nel deserto, ma soddisfatti di camminare tra i ciechi, vedendo».

 Dopo la sua morte, all'inizio del 2002, avevo sentito un forte desiderio far conoscere e di divulgare il suo lavoro estremamente personale e importante. Un punto fermo nel campo della musica, ma anche della Computer art. Un'ottica diversa e forse irripetibile di fare arte con un computer.

Avevo desiderio di far conoscere questo intuitivo precursore.

Per questo ho voluto curare una sua mostra, ed ho trovato ospitalità al Museo Laboratorio dell'università La Sapienza, a Roma, nel novembre 2002, dove ho trovato consenziente e partecipe Simonetta Lux, direttrice del Museo.

Ho conosciuto Pietro Grossi il 2 febbraio 1989 e negli ultimi anni abbiamo fatto alcune mostre insieme durante le quali ho imparato ad apprezzarlo e a stimarlo.

Per presentarlo sono andata a rileggere quello che avevo scritto, dopo averlo incontrato, nel mio diario (diario che poi è diventato un libro «Il pozzo dei desideri») scritto per capire io stessa tutto quello che stavo vivendo nel periodo della ricerca, della sperimentazione nel campo della computer art.

Era stato un incontro straordinario per tanti motivi, primo perché ho capito di avere di fronte un grande uomo, un grande artista. E in più avevo trovato in lui tante sensazioni che provavo anch'io lavorando con il computer.

Aveva avvertito le mie stesse emozioni, aveva tratto le mie stesse conclusioni.

Entrambi avevamo provato l'ansia, l'angoscia del vedere che non eravamo capiti. E poi avevo visto che l'amore, la passione, l'entusiasmo crescente per questo lavoro erano identici.

Persino uguale l'impressione di giocare con il cervello.

Insomma, una specie di fratello nel campo della ricerca.

Ma Pietro veniva dalla musica, il suo primo amore è stata la musica ed ha vissuto con tale costante passione da arrivare ad ottenere risultati importanti, grandi.

Ricordiamo che diplomato in violoncello, con il suo strumento ha accompagnato i film muti.

Da qui agli anni '60, periodo in cui ha iniziato la ricerca e la sperimentazione nel campo della musica elettroacustica. Nel 1965 ha ottenuto l'istituzione della cattedra di Musica Elettronica (la prima in Italia) presso il Conservatorio di Musica di Firenze. Quindi le prime esperienze di Computer music sono del 1967, anno in cui aveva 50 anni.

Poi alla fine degli anni '80, a 67 anni, ha allargato il suo campo di ricerca ed ha elaborato il concetto di Homeart, come lui diceva «arte creata da e per se stessi, estemporanea, effimera, oltre la sfera del giudizio altrui».

Realizza quindi elaborazioni visive su Personal Computer con programmi dotati di autodecisionalità. Che vuol dire? Programmi che consentono ad una nota, come ad una linea, ad un punto, ad una forma di moltiplicarsi autonomamente.

Nel 1991, a 74 anni, crea l'homebook. È questa un'editoria personalizzata e realizzata con programmi creati da lui stesso, che assicurano l'unicità grafica di ciascuna opera.

Nel 2000, a 83 anni, aveva composto ben 86 programmi che generano caratteri diversi.

Penso che gli "Alfabeti" in particolare abbiano avuto una particolare importanza. Del resto proprio per questo suo specifico lavoro amava ripetere con la sua innata capacità di ironia «il computer ci libera dal genio altrui ed accresce il nostro».

Dalla musica alla grafica l'atteggiamento creativo di Pietro è lo stesso. Ovvero, su di lui agisce il fascino di elementi che composti, creano un movimento, un ritmo. Inoltre tramite l'inserimento di variabili, tra le costanti numeriche del programma, crea combinazioni che hanno scarsissime possibilità di ripetersi.

Quindi, la suggestione, il fascino che provoca il suo lavoro nasce dal ritmo crescente dato sia dalla nota che dal punto, dalla linea, dalla curva che moltiplicandosi creano suoni, creano forme.

Grossi, con questa rigorosissima ricerca, esprime la sua poetica.

La musica, il suono, la grafica, la "homeart", l'editoria sono tutti esempi della sua capacità di incunearsi nelle diverse discipline, di creare una "rumorizzazione" affascinante.

Per documentarmi meglio, prima della mostra fatta al Museo Laboratorio, sono stata a Firenze per vedere il materiale che avrei esposto ed ho visto una diapositiva che riportava una frase che mi ha colpito, l'ultima che aveva scritto. "Non hanno capito niente. Perché?"

Forse il suo lavoro è proprio in questo perché.

Tutti quelli che fanno arte, arte d'avanguardia, in questo caso elettronica, seguono l'intuito iniziale poi, lavorando, si immergono in maniera totale in quello che fanno, progredendo gradatamente.

E per loro diventa tutto normale, tutto è semplice.

Invece chi guarda, da fuori, avrebbe bisogno di vivere in qualche modo le stesse intuizioni dell'autore, vivere gli stessi processi evolutivi, dovrebbe approfondire per poter capire completamente.

È vero che anche chi non è "addetto ai lavori" dovrebbe "riconoscere" un'opera d'arte. Ma l'arte elettronica non è facile. È forse spettacolare, accattivante, sorprendente, ma non è facile.

Per questo sarebbe interessante durante ogni esposizione di suoi lavori, vedere e ascoltare un video che riporta un'intervista a lui fatta, pochi anni prima della morte, in cui spiega con molta semplicità il suo lavoro.

Credo che questa sia la maniera migliore per conoscerlo.

Roma, 6 Maggio 2004