La Critica

La decostruzione concettuale e linguistica del medium esposizione

Les Immatériaux. Un percorso di Jean François Lyotard nell'arte contemporanea

di Vania Granata

Recentemente presso il MLAC Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell'Università La Sapienza di Roma è stato presentato il denso testo di Francesca Gallo Les immatériaux. Un percorso di Jean François Lyotard nell'arte contemporanea (Aracne editrice, 2008).

Il saggio delinea il senso della parola e del concetto di "immaterialità" che l'esposizione del 1985 proponeva e che il filosofo del postmoderno Lyotard era stato incaricato di curare presso il Centre Pompidou parigino. L'analisi della mostra, sicuramente nota ai più, ma altrettanto misconosciuta nella sua effettiva complessità progettuale ed estetica, aderisce alla scelta, da parte dell'autrice, di percorrere, tra le tante strade offerte per scrivere la storia dell'arte contemporanea, la via tortuosa e mutevole della storicizzazione di eventi "effimeri" come le esposizioni, ma notevoli, come in questo caso.

Les Immatériaux rappresenta infatti un "caso" nella storia dell'esposizione per la serie di ingredienti extra-ordinari con cui essa veniva ad essere costituita. Tra essi, ovviamente, l'eccezionale fatto di essere stata curata da un notissimo filosofo.

Il testo che ricostruisce scientificamente le coordinate del fitto tragitto espositivo prende l'avvio specificando innanzitutto l'estensione del campo semantico della parola "immateriale". Secondo l'accezione lyotardiana, il termine (forgiato sulla «abolizione della distinzione tra materia ed energia — che da contrari divengono opposti correlativi a favore di entità ibride — nel senso che parte della materia si sottrae alla forma») assume significato in relazione oppositiva alla parola francese matériaux, indicando la destituzione di qualsivoglia possibilità costruttiva del soggetto.

Su questo orizzonte di senso, di crisi dell'umanesimo e dispersione dell'io, prende corpo la concezione della mostra. La lunga gestazione, dalla nomina ufficiale di Lyotard nel 1983 in co-curatela con Thierry Chaput, sino alla concretizzazione espositiva del 1985, rivoluziona di fatto il progetto originale precedente, dedicato alle trasformazioni indotte dalla quarta rivoluzione industriale.

L'oggetto-mostra prende quindi forma, ma meglio sarebbe parlare di non-forma, attuando una evidente implosione comunicazionale. Il modello concettuale cui Lyotard si attiene è infatti il rovesciamento della prammatica linguistica di Jakobson. Sostenendo la assoluta indistinzione tra i poli del sistema comunicativo destinatore / destinatario / messaggio / referente / codice e formulando un rapporto identitario tra codice e supporto egli giunge a "confezionare" un prodotto espositivo che rivoluziona "il medium mostra", convenzionalmente inteso, per esibirsi come luogo privilegiato del processo di de-costruzione.

«L'interazione che trasforma il destinatario in destinatore; i corpuscoli di materia, che in fisica sono sia referente che codice; l'arte che ha trasformato materiali e codici in referenti; il cemento in architettura che da supporto della forma diventa parte del codice che può modificarla e così via»: sono queste le questioni aperte da Lyotard riguardo il modello jakobsoniano che guidano l'estrema complessità organizzativa dei materiali e dello spazio della mostra.

Lo spettatore infatti, liberamente immerso nei 3000 mq del quinto piano del Pompidou in una sorta di dérive situazionista con il solo ausilio di antesignane cuffiette audio ad infrarossi che diffondevano materiali sonori discrepanti e mutevoli, si trovava a dover decifrare gli assi incrociati dei raggruppamenti concettuali e linguistici (le "zone") mediante cui la mostra era organizzata e di cui il pubblico non aveva minima cognizione né, tantomeno, indicazione.

Dan Flavin, To Donna 1971, Paris, Musée National d'Art Moderneque

Dan Flavin, To Donna, 1971, Paris, Musée National d'Art Moderne

L'esposizione dunque, seppur corredata da numerosi esempi di opere dal neoimpressionismo seuratiano all'arte cinetico-visuale di Moholy-Nagy sino agli ologrammi di Sam Moore, Stephen Benton e Doug Tyler arrivando al concettuale Kosuth, per citare solo un esempio molto parziale configurava uno spazio labirintico incessantemente riconfigurabile, sfuggente a qualsiasi stabilità di definizione.

La "coerenza" di Les Immatériaux, espressa mediante una cartesiana quanto paradossale suddivisione dello spazio in cinque assi o nuclei semantici a-gerarchici matériau, matériel, matrice, matière, maternité in costante ed incrociata relazione, era difficilmente immaginabile; l'esposizione delegava di fatto allo spettatore il compito di trarre le (proprie) conclusioni, in una totale assenza di messaggio e di fronte ad una domanda sempre aperta.

L'oggetto-esposizione, così immaterialmente ed anti-espositivamente concepito, si disponeva esso stesso ad essere interpretato come opera d'arte.

Les Immatériaux, evento espositivo che, proprio dalla culla ufficiale del Pompidou, muoveva una critica e faceva implodere la "canonica forma-esposizione" ha occupato un posto di sicuro rilievo nelle vicende artistico / espositive d'avanguardia degli ultimi trent'anni. Seppure il riflesso della teoria postmodernista lyotardiana appaia necessariamente sullo sfondo di questo particolare evento, è necessario sottolineare come il significato di Les Immatériaux non possa essere meramente ricondotto, forse sbrigativamente, a quello di una mostra "filosofica" ma, come chiaramente si evince dal testo di Francesca Gallo, ad una "struttura concettuale" e linguistica "non immediatamente intuibile" dove "la vera innovazione" sta nel "modo in cui Lyotard de-costruisce il medium esposizione".

Roma, 12 Maggio 2009