La Critica

«Senza la parola "arte" questo mondo va avanti lo stesso»

Intervista a Umberto Galimberti

di Caterina Falomo

 

Umberto Galimberti insegna Filosofia della storia all’Università di Venezia. Tra i libri pubblicati: Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente (Marietti 1975, e ora il Saggiatore 1996), Linguaggio e civiltà (Mursia 1977), Psichiatria e fenomenologia (Feltrinelli 1979), Il corpo (Feltrinelli 1983), La terra senza il male (Feltrinelli 1984), Invito al pensiero di Heidegger (Mursia 1986), Gli equivoci dell’anima (Feltrinelli 1987), Il gioco delle opinioni (Feltrinelli 1989), Dizionario di psicologia (Utet 1992, e ora Garzanti 1999), Idee: il catalogo è questo (Feltrinelli 1992), Parole nomadi (Feltrinelli 1994), Paesaggi dell’anima (Mondadori 1996), Psiche e techne (Feltrinelli 1999), Le orme del sacro (Feltrinelli 2000).

Il progresso tecnico-scientifico provoca a quanto pare l'irreversibile decadenza dell'umanesimo. Ciò vorrebbe dire che il pensiero viene sottomesso alla potenza della tecnica. Una volontà di dominio che tutto può "volere" in quanto vuole in primo luogo il proprio infinito potenziamento. Una potenza che dunque, innanzi tutto, "vuole se stessa". Non potendo comunque cambiare il corso alla storia, queste critiche-osservazioni alla superpotenza della tecnica non nascono dall'ammissione nostalgica di un qualcosa che non c'è più per cui l'umanesimo non sarebbe stato in grado di perpetuare il proprio dominio e proprio allora la tecnica avrebbe preso il sopravvento su tutto: sull'etica, sulla morale e anche sui sentimenti?

Che l'umanesimo sia finito è una storia vecchia almeno di cent' anni nel senso che già lo diceva Heidegger nel 1930. Cosa vuol dire umanesimo fondamentalmente? Che l'uomo può governare la terra: ecco oggi questa proposizione non è più praticabile. Per "tecnica" intendo l'oggettivazione dell'intelligenza umana, la quale è decisamente superiore a qualsiasi uomo, per cui non è più possibile pensare l'uomo come colui che dispone della terra ma bisogna pensare a quei processi di oggettivazione della sua intelligenza che si chiamano tecnica e che, essendo superiori alla capacità di tutti gli uomini (intesi sia come individui, sia come gruppi), governano la tecnica, ossia governano la terra. Il problema grosso è che la tecnica non ha uno scopo. Nel senso che, nelle età pretecnologiche, la tecnica è sempre stata pensata come un mezzo. E gli scopi li assegnavano gli uomini.

Oggi la tecnica non è più un mezzo perché, essendo diventata la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, essa diventa il primo scopo: ciò cui ci si rivolge, innanzitutto, e alla cui conquista tutti gli uomini tendono. Solo che, quando un mezzo diventa scopo, si rivela anche un mezzo senza scopi. Per cui la tecnica a questo punto è diventata scopo. Quindi la cosa si fa ancora più drammatica, poiché essa tende esclusivamente al proprio potenziamento. Io produco ad esempio una leva: in seguito farò una leva più potenziata, poi ancora più potenziata. Ma questa descrizione vale finché la leva è un mezzo: però se la leva non è più un mezzo ma diventa lo scopo, allora resta la struttura del mezzo che è quella di potenziarsi sempre di più senza alcuna finalità.

Ora, siccome la politica può realizzare i suoi scopi solo se si dispone dell'apparato tecnico, siccome la stessa religione può realizzare il suo universalismo solo disponendo di mezzi tecnici, è chiaro che tutti vogliono la tecnica, la quale però è un fare afinalizzato, un potenziamento afinalizzato, per cui l'uomo oggi si trova in uno scenario senza orizzonti. E non li può certo assegnare alla tecnica questi orizzonti, appunto perché la tecnica è più forte di lui. Questa è una persuasione diffusa anche a livello elementare: ad esempio la gente oggi di fronte ad un incidente stradale o a uno scontro fra due treni spesso cosa dice? Che è stato un "errore umano", per cui l'uomo è già pensato come un errore, e lo si pensa dunque solo in relazione alle esigenze dell'apparato tecnico.

Sì, la cosa strana è che sembra di esser di fronte ad un nuovo individuo...

Questa è la nostra visione antropomorfica: non avendo altro linguaggio l'assumiamo come soggetto. Però la tecnica può essere definita come la forma più alta di razionalità umana, più alta ancora dell'economia — che è pure una forma razionale — perché l'economia è ancora corrotta da una passione umana, ovvero la passione per il denaro; mentre la tecnica è la forma più alta di razionalità, quindi è assolutamente anonima e indifferenziata.

Un'altra cosa che a me pare strana: non è comunque la tecnica un prodotto della mente dell'uomo?

Sì, però il prodotto ha superato il produttore, per cui sono convinto che tutti quelli che usano il computer sono inferiori al computer che usano, nel senso che non sono capaci di "manipolarlo" come un semplice strumento...

Sì, ma questo è il problema di coloro che non hanno voglia — non dico di pensare, perché pensare non ti risolve i problemi della macchina — però di sforzarsi, di essere convinti che si può approfondire la conoscenza del mezzo...

E' vero quando parliamo di un computer, ma l'apparato tecnico è un complesso di sottoapparati. Ora, il fatto è che l'apparato tecnico risultante dalla somma di tutti gli apparati è decisamente superiore a tutte le competenze. Per cui bisogna anche smobilitare l'idea che esista un potere, un presidente degli Stati Uniti che possa controllare la tecnica. No. Anche perché le competenze tecniche sono arrivate ad un livello tale che, per esempio, in America sono nate delle tv divulgative non per far capire le cose alla gente comune ma per far capire al fisico A, che sta studiando una certa cosa, come poter intendersi col fisico B... per cui tra di loro già non si intendono più... dunque, pure a livello di specializzazione non c'è più nessuno che è davvero "competente". E non è solo il caso della fisica. Lo stesso avviene nel mondo dell'informazione. Oggi la politica guarda all'economia per decidere, quindi la politica non è più il luogo della decisione. L'economia a sua volta guarda alle risorse tecniche per investire. Quindi la tecnica finisce per essere il luogo della decisione priva di effettivo "discernimento", perché non ha in vista scelte, scopi, che non siano il suo mero potenziamento.

Se la tecnica è lo stadio ultimo di questo discorso, se però poi lei dice che non siamo ancora nel pieno svolgimento dell'età della tecnica, cosa sta succedendo?

Direi che la tecnica non è ancora la forma universale del mondo, innanzitutto per una ragione geografica, perché la tecnica è un evento solo occidentale. Inoltre, anche all'interno dell'occidente ci sono dei residuati antropologici, nel senso che oggi ancora il potere politico può dire alla tecnica ti potenzio qua e non ti potenzio là... Perché si arrivi all'egemonia totale ci vuole ancora un po' di tempo: in questo senso dico "non si è ancora fatta sera", però non vedo l'alternativa.

«Come fa l'etica che non può, a dire alla scienza e alla tecnica, che possono, di non fare ciò che possono?» A me sembra che l'attenzione sia sempre rivolta verso l'esterno, come per dire che è tutto inevitabile. L'etica non ha forse delle colpe?

Io non farei una critica all'umanesimo, perché l'umanesimo ha gestito un'etica finché si pensava che il bene e il male fossero faccende che riguardavano la sfera umana. Nessuno pensava che l'aria o l'acqua rientrassero nella responsabilità umana, perché ce n'era tanta e gli uomini erano pochi, per cui le visioni etiche che finora abbiamo costruito avevano nel bene e nel male limitato la sfera umana. Noi sostanzialmente possiamo distinguere tre etiche nella storia della cultura occidentale: la prima è quella dell'intenzione, per cui io sono colpevole o non colpevole a seconda dell'intenzione che avevo nel compiere un'azione. Su questo si è fondato tutto l'ordine giuridico dell'Europa: di fronte a un fatto si dice se il delitto era intenzionale, preterintenzionale, eccetera. Ora, a me sapere le intenzioni di uno scienziato, ad esempio di Fermi che inventa la bomba atomica, non interessa niente sul piano etico, mi interessano piuttosto gli effetti della bomba atomica. Per cui l'etica dell'intenzione di origine cristiana non mi serve più.

Abbiamo poi un'etica laica che trova in Kant il suo maggiore esponente: afferma che l'uomo deve essere trattato sempre come un fine e mai come un mezzo, lasciando implicito che tutte le altre cose possano invece essere trattate come un mezzo. Solo che oggi posso davvero trattare come un mezzo gli animali, i pesci, le piante, l'aria, l'acqua, cioè tutto quel che è fuori dall'umano? No, perché la tecnica mi sta disfacendo l'habitat in cui vivo, per cui devo costruire un'etica che si faccia carico di sfere extraumane di cui anche l'etica laica non aveva formulato il principio.

Poi c'è una terza etica, messa in circolazione da Max Weber, che è l'etica della responsabilità (1910). Weber dice che non bisogna guardare l'intenzione degli uomini, bisogna guardare gli effetti delle loro azioni. Poi però apre una parentesi e dice: «quando gli effetti sono prevedibili». Ora, è proprio della tecnica produrre effetti imprevedibili, ad esempio gli organismi geneticamente modificati hanno degli effetti che non conosciamo ancora, però la tecnica biogenetica va avanti. Ecco allora che anche questa etica della responsabilità non funziona. Altre non ne abbiamo inventate. E allora ci troviamo nella posizione patetica per cui l'etica invoca la tecnica di non fare ciò che può. Ad esempio, si può fecondare in mille maniere: si può fare o non si può fare? L'etica può dire quello che vuole la tecnica va avanti e fa. Perché il motto della tecnica è che «si deve fare tutto quello che si può fare». Questa è l'etica della tecnica, prescindendo da tutte le conseguenze.

«Inquietante non è che il mondo si trasformi in un unico apparato tecnico – ancora più inquietante è che non siamo affatto preparati a questa radicale trasformazione del mondo» (Heidegger). La consapevolezza di ciò a cosa porta? Io personalmente vivo quest'ansia da tecnica (cellulari, computer… ) ma il sapere quali sono i danni miei e della civiltà non mi consola, anzi mi intristisce ancora di più perché sento la frustrazione e l'impotenza del non poter fare nulla, anche perché se io dico no alla tecnica, a parte il vivere male, vivo comunque in un mondo tecnicizzato.

Qui Heidegger sta dicendo che la tecnica non solo ha degli effetti sul mondo esterno ma ha degli effetti anche su di noi; dice anche un'altra cosa che è inquietante: il fatto per cui noi non disponiamo di un pensiero che non sia il pensiero del calcolo. Oggi per noi occidentali pensare significa far di conto, calcolare, prevedere, fare piani, organizzare, ma questo è pienamente il pensiero tecnico. Allora la tecnica è già entrata a modificare il nostro modo di pensare: questo è l'inquietante. Allora la domanda è questa, non è inquietante che il mondo si trasformi in un apparato tecnico, non è inquietante abbastanza il fatto che noi non siamo preparati, ma è inquietante il fatto che non disponiamo neppure di una risorsa di pensiero alternativa, perché la tecnica ha già condizionato il nostro modo di pensare trasformando il pensiero in calcolo e quindi noi siamo organici alla tecnica già nel nostro stesso modo di pensare.

La gente non accetta queste cose: continua a pensare di vivere in un'epoca umanistica e ha, sì, una certa ansia della tecnica, ma è sempre persuasa che l'uomo possa controllare con la volontà la tecnica medesima. E invece bisogna rendersi conto che la tecnica modifica radicalmente le figure con cui l'umanità ha pensato se stessa. Per esempio, modifica il concetto di verità. Per cui è vero quello che è efficace, quello che fa effetto: questo non si era mai detto, modifica il concetto di libertà perché io posso scegliere alla sola condizione di poter essere tecnicamente competente, perché se invece non ho una competenza non posso affatto scegliere...

Quindi, la libertà è cadenzata dalla competenza tecnica. L'individuo va in crisi perché nell'età della tecnica, per effetto dei mezzi di comunicazione, ciascuno pensa quello che pensano tutti, e allora a questo punto anche la storia dell'individuo deve essere rivisitata. Le rivoluzioni non sono più possibili nell'età della tecnica perché le rivoluzioni sono possibili quando ci sono due volontà, il signore e il servo, ma nell'età della tecnica sia il signore sia il servo sono subordinati all'accadere tecnico. Nel senso che non è solo l'operaio a dover sottostare alle leggi del mercato, ma anche il capitalista. Quindi, la tecnica riduce i contendenti a subordinati, per cui la rivoluzione è impossibile. Con chi me la prendo? Con la tecnica che è la condizione della mia vita? E allora, in questo senso, diciamo che parlare della tecnica significa oggi svegliare la gente e dire: rendetevi conto che siamo nell'età della tecnica e se continuate ad abitare questo nuovo paesaggio con categorie umanistiche vivete in un altro mondo, non siete all'altezza del mondo in cui vi muovete. Quindi si tratta di una sorta di educazione alle consapevolezza che le categorie umanistiche oggi non funzionano più, cioè sono disadatte ad interpretare questo mondo.

E per quelli che già se ne rendono conto?

Oggi la tecnica funziona ancora come mezzo di volontà contrastanti, poi arriverà ad un punto in cui eliminerà anche le volontà contrastanti. Prendiamo ad esempio il capitalismo: il capitalismo per espandersi, per seguire la sua logica espansionistica finisce per distruggere la terra che è l'elemento della sua ricchezza e allora cosa fa per rallentare la distruzione della terra? Deve ricorrere alla tecnica. E la tecnica pone le sue leggi indipendentemente dalle leggi del capitale. Per cui anche la conceria di Treviso per fare il profitto deve distogliere parte del suo profitto per realizzare il depuratore. Questo vuol dire che il capitalismo sta cominciando a pagare dei costi alla tecnica. In qualche modo oggi è ipotizzabile un riscatto dell'umanità proprio grazie alla tecnica.  

Può secondo lei l'arte — intesa in senso ampio come "espressione artistica" — essere una via di fuga per quel mondo perduto della psiche, della fantasia, delle emozioni e dei sogni? E come vede in tal caso il rapporto tra arte e tecnica?

L'arte è l'ornamento del capitale. L'arte può essere sì un'alternativa alla tecnica, ma dal punto di vista, appunto, della via di fuga. La tecnica è efficentistica e incide anche nelle pratiche quotidiane della vita. L'arte esiste, ma può essere un contraltare alla tecnica solo se il mondo si organizza artisticamente. Ma non mi pare che il mondo si organizzi in questo senso. Non dovremmo forse sempre vedere qual è la parola senza la quale non si può spiegare ciò che succede? Se io tolgo la parole "arte" questo mondo va avanti lo stesso? Mi pare di sì. Se tolgo la parola "tecnica"? No. Allora l'arte non è un contrappunto della tecnica, è un rifugio estetico ed emotivo. Qualcosa come il weekend più nobile rispetto ad un weekend ormai tecnicizzato, poiché ormai assistiamo anche alla tecnicizzazione del tempo libero. Dopodiché, c'è l'ultima speranza da affidare al terzo o quarto mondo, nel senso che la tecnica è un elemento solo occidentale che investe 800 milioni di persone che consumano l'80% delle risorse del mondo. La tecnica in sé è una struttura fortissima ma anche debolissima. Ad esempio, il terrorismo capta la debolezza della tecnica. La sua fragilità.

Venezia, 12 Giugno 2002


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