La Critica

Vedere è toccare a distanza

di Enrico Cocuccioni

 

Se l’estetica è una riflessione filosofica sul “sentire”, la Phénoménologie de la perception [1945] di Maurice Merleau-Ponty rientra a pieno titolo nel ‘campo aperto’ delle riflessioni estetiche. Nel suo testo incompiuto, Le visible et l’invisible [1964], Merleau-Ponty così riassumeva il compito del filosofo:

«E’ vero che il mondo è ciò che noi vediamo, ed è altresì vero che nondimeno dobbiamo imparare a vederlo. In primo luogo ciò significa che, mediante il sapere, dobbiamo eguagliare tale visione, prenderne possesso, dire che cos’è noi e che cos’è vedere, e dunque comportarci come se non ne sapessimo nulla, come se in proposito avessimo tutto da imparare»(1).

Per questo tipo di riflessione lo spunto può essere tratto da qualunque aspetto dell'esperienza quotidiana, senza che vi siano oggetti d'indagine privilegiati. Ma è anche possibile, a mio avviso, trovare nell’arte delle occasioni particolarmente significative per sollecitare nelle persone, a cominciare da noi stessi, una più profonda consapevolezza delle percezioni.

La riflessione critica sull'arte può inoltre consentirci di far leva anche sulle risorse intuitive del pensiero poetico - proprio partendo dal “sentire” - nel promuovere una più intima comprensione di quelle interdipendenze che, sia pure con diverse modalità rispetto all’arte, la stessa conoscenza scientifica non può non cogliere, a suo modo, nell’intero ecosistema (naturale e artificiale) che ci ha accolto al suo interno fin dalle nostre più remote origini.

Tra le intenzioni da cui muove questo testo c’è, in primo luogo, quella di affrontare il presente, se possibile, con un atteggiamento diverso e complementare rispetto alle mitologie giornalistiche più diffuse in materia di "neotecnologie". Mi riferisco a quegli approcci superficiali o intellettualistici verso l'uso creativo delle tecnologie digitali che oggi troppo spesso tendono, in modo pressoché esclusivo e unilaterale, a rimarcare solo le differenze certo non irrilevanti che sembrano caratterizzare, appunto, questi nuovi media (basati, com'è noto, su strutture algoritmiche e matrici numeriche binarie), rispetto ai tradizionali strumenti analogici, ritenuti ancora improntati ad una obsoleta "materialità", quasi fossero ormai da considerare meno "nobili" o perfino meno suscettibili di risvolti "spirituali" in quanto troppo legati alla volgare pesantezza degli atomi e dunque non in grado di competere con la sublime leggerezza dei bit dell'informazione automatizzata.

Come se anche gli umani, in virtù di una repentina quanto abissale mutazione antropologica,  avessero ormai dentro la testa solo pure informazioni fluttuanti al posto della rozza materia grigia di un tempo. L’esempio forse più evidente è quello della fotografia digitale. Il passaggio del "fotografico" attraverso il "numerico" farebbe insomma venir meno, secondo quello che è diventato ormai quasi un luogo comune, lo stesso valore indiziario della fotografia.

In questa ottica, il digitale sembra dunque modificare radicalmente lo statuto semiotico dell’immagine, per cui una foto manipolata al computer diventerebbe in ogni caso una "icona pittorica", un puro mosaico di pixel, smettendo in tal modo di poter essere anche considerata come una impronta, una traccia durevole lasciata per contiguità fisica da un evento luminoso su una superficie sensibile, magari a testimonianza di un fatto che è effettivamente accaduto, un'azione che si è svolta in un tempo e in uno spazio reali (o che il reporter ha in qualche modo testimoniato, catturandone un aspetto più o meno saliente con la sua macchina da presa analogica).

Se così fosse, dovremmo concludere che quella che continuiamo a chiamare erroneamente “fotografia di reportage” in realtà non esiste più, dato che il passaggio attraverso la digitalizzazione è oggi pressoché obbligato per tutte le foto pubblicate su libri, quotidiani, riviste e siti web. Ma non sarà affatto questa, come vedremo, la nostra conclusione (2). Proprio dalle teorie semiotiche abbiamo appreso che ogni segno può essere usato anche per mentire, dunque la manipolazione digitale delle immagini fotografiche, sebbene tecnicamente molto efficace e potente, non può certo rivendicare alcuna esclusiva in questo campo sconfinato delle mistificazioni possibili.

Sappiamo che anche i nostri sensi spesso ci ingannano, ma nella vita quotidiana riusciamo in genere a cavarcela passabilmente anche in situazioni rischiose grazie ad una serie incessante di controlli percettivi incrociati attuati con tutto il nostro corpo - un corpo al contempo agente e senziente - oltre che con tutte le nostre facoltà mentali (3). Dovremmo dunque tener presente che se, da un lato, può essere comodo sul piano mnemonico e nozionistico poter ridurre i nostri sensi ai ben noti cinque “canali” (quei cinque sensi che siamo perciò in grado di contare, per così dire, sulle dita di una mano), dall’altro lato, però, questo modo di semplificare le cose può allontanarci dalla consapevolezza che questi canali sensoriali, seppure distinguibili anatomicamente tra loro, agiscono perlopiù quasi sempre in una medesima direzione operativa e sono tra loro interconnessi anche sul piano strettamente fisico dei collegamenti neurali.

In un testo del 1966, The Senses Considered as Perceptual Systems, lo studioso della percezione James J. Gibson riprendeva e sviluppava in termini sperimentali l’ipotesi, peraltro non nuova (4), di un senso “aptico” (“Haptic”, dal greco “Apto”, termine che qui evoca in prima istanza l’idea dell’apprensione tattile dello spazio, nonchè di quella stessa autopercezione dell’assetto corporeo che consente l’orientamento di un organismo rispetto all’ambiente fisico circostante). Più che un sesto senso, il sistema aptico-cinestesico a me sembra definibile come una sorta di risultante dell'azione congiunta di tutti i sensi, ma soprattutto a me pare che l'aspetto "tattile" in senso lato si possa considerare come il tratto più arcaico e quindi, forse, come la caratteristica più elementare di ogni sensore biologico, in particolare qualora si tenti di individuare un fattore comune tra le innumerevoli modalità percettive degli esseri viventi.

Senza una contiguità fisica di qualche tipo con la fonte dello stimolo un sensore biologico qualsiasi non si vede come possa captare alcunché. E a maggior ragione questa condizione materiale preliminare della percezione deve essere presupposta anche nel caso degli stimoli e dei sensori artificiali. In un libro dal titolo The Tuning of the World [1977], il compositore e studioso del "paesaggio sonoro" R.Murray Shafer sottolinea l'aspetto tattile dell'esperienza uditiva: «Il tatto è il più personale dei sensi. Udito e tatto s'incontrano nel punto in cui le più basse frequenze udibili si trasformano in sensazioni tattili (attorno ai 20 hertz circa). Udire è toccare a distanza»(5).

Protremmo forse aggiungere che ciò vale in qualche modo anche per la visione, anzi per il "sentire" in generale (che è sempre, in qualche misura, un "sentire qualcosa"). Tutto ciò che è percepibile deve pur essere in qualche modo tangibile anche qualora non si ponga alla nostra diretta portata di mano. La distinzione tra ricettori di prossimità e ricettori di distanza finisce così per risultare in molti casi fallace o troppo approssimativa, se pensiamo che, ad esempio, la nostra pelle è direttamente toccata dal calore del sole (e questo non è certo solo un modo puramente poetico-metaforico di esprimersi).

Analogamente, anche quando guardiamo una stella distante anni luce dal nostro sguardo, possiamo pur sempre pensare ad una nostra contiguità fisica con quella, seppur debole, energia luminosa proveniente da un luogo così lontano. Proveniente persino, in questo caso, da un nostro inimmaginabile passato remoto. Un pensiero da vertigini metafisiche: tutto ciò appare indubbiamente molto "sublime" e molto "toccante" ma ha pur sempre una base materiale in senso lato: una struttura profonda che non a caso è oggetto privilegiato di studi astrofisici che appunto tendono, nel bene e nel male, a tradurre tutto ciò in termini di simbologie "astratte", di misurazioni e calcoli sempre più precisi.

E' chiaro che alla luce di questo tipo di indagine razionale anche la struttura dell'atomo finisce per poter essere considerata un modello astratto, una costruzione ipotetica della nostra mente, una pura entità "immateriale" composta solo di bit d'informazione che hanno perduto ogni pesantore sensibile lungo l'avventuroso percorso conoscitivo delle scienze. Ma se non stiamo semplicemente parlando del nulla, dobbiamo ammettere che stiamo pur sempre riferendoci a quelle entità basilari della struttura dell'universo in virtù delle quali tutte le cose assumono per noi una loro specifica consistenza e pesantezza.

Tornando all'arte, osserviamo ad esempio la nota fotografia di Man Ray che ritrae Meret Oppenheim all'interno di una stamperia con la mano sporca d'inchiostro [1933 c.]: un'immagine efficace per evocare la sostanziale interdipendenza che esiste tra i procedimenti della stampa, le moderne tecniche fotografiche e le millenarie procedure pittoriche. Parliamo pur sempre di atti e di impronte, anche quando tali impronte assumono, per così dire, il particolare statuto di "impronte digitali" (qui intese, ovviamente, nel senso di "numeriche" anziché "realizzate con le dita", anche se non è certo inverosimile che anch'esse derivino dall'azione concreta di qualche mano in carne ed ossa che probabilmente ha dovuto pur sempre digitare dei simboli alfanumerici sulla tastiera di un computer...).

Anche Internet, la grande rete informatica planetaria, nella visione qui proposta è destinata a rimanere inclusa nell'orizzonte immanente della fisicità delle cose: ad essere incorporata definitivamente dentro la carne del mondo, per riassumere il nostro discorso con questa efficace espressione presa in prestito da Merleau-Ponty. L'eventuale povertà sensoriale delle immagini che vediamo oggi sui monitor, la relativa "leggerezza" dei supporti informatici, l'apparente immaterialità delle interazioni telematiche, non ci autorizzano allora ad insistere maldestramente sulla retorica del virtuale e dell'immateriale.

In qualche modo, dunque, i nostri corpi si trovano ancora a contatto più o meno diretto con delle entità concrete: anche nella dimensione della multimedialità interattiva e telematica siamo di fatto molto spesso alle prese con le nuove superfici sensibili artificiali, e siamo pienamente coinvolti in questa sorta di "massaggio" mediatico quasi come - fatte, ovviamente, le dovute distinzioni - accadeva ai tempi delle azioni performative di Yves Klein [1960], quando l'artista, in un senso tutt'altro che figurato, "stampava" direttamente l'impronta del corpo delle sue modelle sulla tela.

 

Roma, 22 Aprile 2003


Note

(1) Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, Bompiani, Milano 1969, p.16. Nelle righe successive l'autore precisa che però tale filosofia «non cerca un sostituto verbale del mondo che vediamo» (non muove dal presupposto che il visibile sia compiutamente riformulabile nel dicibile, o comunque non si installa trionfalmente nel dominio della verbalizzazione come se la ricerca di questa presunta "equivalenza" fra il visto e il detto fosse lo scopo ultimo del proprio impegno esplorativo). In questo libro troviamo anche esemplarmente tematizzato l'intreccio dei sensi, ad esempio il chiasma, per così dire, tra il regime dello sguardo e la prensilità della mano: «Dobbiamo abituarci a pensare che ogni visibile è ricavato dal tangibile, ogni essere tattile è promesso in un certo qual modo alla visibilità; e che c'è trasgressione, sopravanzamento, non solo fra il toccato e il toccante, ma anche fra il tangibile e il visibile che è incrostato in esso, così come, reciprocamente, il tangibile stesso non è un nulla di visibilità, non può fare a meno di una esistenza visiva. Poiché il medesimo corpo vede e tocca, visibile e tangibile appartengono al medesimo mondo. E' un prodigio troppo poco notato il fatto che ogni movimento dei miei occhi — anzi ogni spostamento del mio corpo — ha il suo posto nel medesimo universo visibile che attraverso di essi io esploro nei suoi particolari, così come, reciprocamente, ogni visione si effettua in qualche luogo nello spazio tattile. C'è rilevamento doppio e incrociato del visibile nel tangibile e del tangibile nel visibile, le due carte sono complete, e tuttavia non si confondono. Le due parti sono parti totali, e tuttavia non sono sovrapponibili. Quindi, senza nemmeno entrare nelle implicazioni proprie del vedente e del visibile, noi sappiamo che, poiché la visione è palpazione con lo sguardo, occorre che anch'essa si inscriva nell'ordine d'essere che essa ci svela, occorre che colui che guarda non sia egli stesso estraneo al mondo che guarda» (pp.159 - 160).

(2) Occorre tener presente che nell'ambito generale del fotografico possiamo includere a pari titolo sia la dimensione proiettiva (ottico-centrica) di quella "similarità iconica" peraltro inscrivibile nell'ordine retorico della metafora, sia quel regime dell'indice (aptico-metonimico) non necessariamente legato alla mimesi o alla riconoscibilità di configurazioni visive già rilevate dall'occhio umano, ma basato piuttosto sulla contiguità fisica e sul valore indiziario dell'impronta automatica che un evento reale ha prodotto in termini di gradienti di luce riflessa in relazione a determinate superfici fenomeniche dalle quali risulti possibile isolare dei tratti differenziali pertinenti, ovvero riconducibili sul piano teorico a probabili "invarianze percettive". La singolarità spazio-temporale di un evento visibile è dunque, in qualche modo, catturata e trasposta tecnicamente — all'interno di inquadrature sempre parziali e contingenti — in mappe di granuli (oppure di minuscole "tessere" quadrangolari), nonché "fissata", memorizzata su particolari supporti fotochimici (o elettronico-digitali). A tali condizioni materiali elementari presupposte da ogni reperto fotografico occorre poi aggiungere quelle decisioni pragmatiche e quelle attribuzioni di significato che appartengono propriamente alla sfera operativa e "simbolica" della scrittura fotografica, la quale a sua volta non può che rinviare al contesto storicamente determinato delle convenzioni culturali vigenti, nonché all'orizzonte ermeneutico delle molteplici interpretazioni possibili di questo o quel testo.

(3) Cfr. James J. Gibson [1979], Un approccio ecologico alla percezione visiva, Il Mulino, Bologna 1999. L'autore suggerisce in questo libro di collocare i fenomeni percettivi nel loro contesto "naturale" proprio per coglierli nella loro fondamentale interdipendenza e complessità.

(4) Cfr. Alois Riegl, Problemi di stile. Fondamenti di una storia dell’arte ornamentale (Stilfragen, Grundlegungen zu etner Geschichte der Ornamentik, Berlin, 1893), Milano, Feltrinelli, 1963. Già in questo libro troviamo la proposta di una possibile distinzione teorica nell'ambito delle arti plastiche tra uno stile ottico e uno stile aptico. Il primo sarebbe tipicamente ascrivibile, secondo il Riegl, alle forme luminose, autoreferenziali e totalizzanti del classicismo, mentre il secondo sembrerebbe piuttosto accentuare la dimensione empatica e relazionale della prossimità o del contatto tra entità eterogenee.

(5) R. Murray Schafer, Il paesaggio sonoro, Unicopli-Ricordi, Milano 1985, p.24.


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