La Critica

Nel respiro dell'opera

Viaggio dentro la 51. Biennale di Venezia

di Alessandra Cigala

Una luce fioca rischiara appena l'ambiente. Sotto i nostri piedi prende lentamente forma una distesa di rifiuti, proiettata sul pavimento. Al crescere e al decrescere della luce si odono e poi svaporano un piccolo grido soffocato, una profonda inspirazione, poi silenzio e una lunga espirazione. Così, seguendo lo stesso ritmo, l'onda indefinita dei rifiuti scivola sotto i piedi, fa mancare la "presa" a terra, provocando una leggera vertigine, una perdita di equilibrio che stordisce.

È la messa in scena dell'opera di Beckett forse più vicina al grado zero della rappresentazione, Breath (Respiro, 1968). Appena 35 secondi che bastano a Nikos Navridis per immergerci in un ambiente sensibile, governato da un lento respiro e dal senso di vertigine, che disorienta e cattura. Non poteva che concludere con quest'omaggio a Beckett la sua lunga serie di "respiri difficili", in cui la sonorità ambientale del video dà corpo e spessore all'invisibilità del fiato. Un fiato, però, sempre "corto", affaticato.

Se, procedendo per sottrazioni, «in Respiro Beckett affermava che la vita può essere un breve grido su un palco vuoto, occupato solo da un po' di spazzatura», come scrive Rosa Martinez, ispirando a questa visione drammatica il suo lavoro curatoriale per la 51. Biennale, è anche vero che, in una sorta di opposizione dialettica, sin dall'inizio è stato il "respiro" lungo di Corto Maltese, il "Sempre un po' più lontano" della via romantica all'arte la stella polare della curatrice. Che, nel pensare l'arte come un metaforico viaggio/vagabondaggio avventuroso, irto di ostacoli ma ricco di sorprese, è vicina alla prospettiva critica delineata anche da Maria de Corral, soprattutto nel confidare nella natura visionaria dell'artista, nel suo sguardo critico e poetico sul mondo, capace ancora di suscitare emozioni, passioni, domande.

L'accento è posto allora sull'esperienza dell'arte, con grande attenzione all'allestimento, al "respiro" da dare alle opere, che devono essere mostrate e vissute al meglio. Anche gran parte dei padiglioni nazionali si è sintonizzata su questa lunghezza d'onda, sia quelli di più antica storia – come Francia, Spagna, Giappone, Canada, Danimarca, Svizzera – che quelli di presenza più recente o addirittura al proprio debutto: Iran, Afghanistan, Paesi dell'Asia Centrale.

Non c'è un'unica via da seguire, non è facile far emergere una linea di tendenza che prevalga sulle altre, come accade ormai del resto da qualche anno nell'arte contemporanea. Sono varie le strade tracciate, gli spunti da raccogliere. Su tutto prevale l'invito a perdersi nell'esperienza dell'opera o ad individuare autonomamente un percorso d'elezione tra i molti proposti. Ma, al contrario della precedente edizione, dove per rintracciare un proprio filo conduttore era necessario farsi faticosamente largo nel magma caotico dei "sogni" e dei "conflitti", qui – pur in una Biennale sempre più immensa e ramificata nella città – si è preferito sottrarre, e, a parte qualche affastellamento di troppo nel Padiglione Italia, curare gli allestimenti con grande attenzione all'emozione che l'arte può ancora suscitare e agli interrogativi che può far sorgere.

Nell'accingersi ad intraprendere un viaggio che ci riveli l'anima profonda di questa Biennale viene naturale seguire la via del "femminile", che lascia una forte impronta su tutta la mostra.

Ma non si tratta dell'unica strada da percorrere, perché, come ci ricordano le curatrici, ce ne sono anche altre, ugualmente significative. Impossibile ignorare le opere che ci scuotono parlandoci del futuro che ci attende, oppure che ci inducono a riflettere sull'oggi attraverso l'analisi dei codici comunicazionali o il filtro dell'ironia.

Ma è la parola poetica ciò che accomuna le opere che riescono a non farsi dimenticare. Cerchiamo di conservarne l'eco dentro di noi.


Miyako Ishiuchi, mother's 2000-2005 --- traces of the future, 2005

Del femminile

Femminile e non femminista, nonostante il gran baccano mediatico su alcune presenze fin troppo gonfiate [1] e l'ovvia constatazione che le curatrici sono due donne. L'ascolto dell'universo femminile rappresenta forse il segno più evidente impresso a questa Biennale. Tocca le tante anime che lo abitano, dalle più consuete e frequentate, alle più difficili da far emergere, tra molteplici sfumature.

Si può scorgere nella delicatezza con cui Bruna Esposito ci parla delle due polarità del femminile: il quotidiano della donna nutrice e fattrice (le bucce dorate di cipolla lasciate cadere sul piano di marmo bianco in Precipitazioni sparse) e allo stesso tempo la quintessenza della grazia e della seduzione (la piccola e preziosa Perla a piombo sospesa nell'aria). Già in altre opere Bruna Esposito aveva saputo coniugare gli archetipi del femminile con la poeticità delle immagini, attivando i sensi o evocando visioni: i pentoloni ribollenti essenze profumate, che spandevano nell'aria degli angusti ambienti di Villa Medici i loro vapori; il mandala costruito pazientemente con legumi e cereali, perché ci sia nutrimento per tutti sulla terra; la panchina in vetri specchianti alla deriva nelle acque dell'Arsenale, miraggio di riposo per sognatori e camminatori sull'acqua.

Ma il femminile può essere anche fiero e duro, come nelle azioni di Regina José Galindo, giovanissima artista guatemalteca, ma anche poeta, vincitrice del Leone d'Oro under 35 per la giovane arte, erede della migliore tradizione performativa, tra Ana Mendieta e Marina Abramovic. Le sue azioni hanno la forza della semplicità, come nella dolorosa camminata dal Palazzo della Corte Costituzionale fino al Palazzo Presidenziale della capitale del suo paese, lasciando le proprie impronte insanguinate sull'asfalto della via [2]; tendono all'assoluto, nel suo letterale e radicale denudarsi in pubblico, radendosi fino all'ultimo pelo del corpo; per giungere a osare l'indicibile, nella violazione terribile della propria intimità, come nell'operazione di imenoplastica mostrata nei dettagli in videoproiezione.

C'è il femminile delle madri, ma anche il maschile dei padri, nella videoinstallazione a più schermi di Candice Breitz (Mothers e Fathers), che preleva e isola frammenti di famose interpretazioni cinematografiche di attori hollywoodiani e li monta tra loro con perfetta sincronia, regalandoci un'inedita visione "corale", in cui il ruolo materno è quello vissuto immancabilmente con maggior pathos.

Algido, bianco, levigato è invece il viso di porcellana della protagonista del video di Runa Islam, mentre assiste impassibile alla rottura di tazze, teiere e preziosissimi vasi, che manda in frantumi con noncuranza sul pavimento. Una sorta di piccola, ma pianificata trasgressione alle convenzioni di una signorina di buona famiglia.

Il corridoio tappezzato con pazienza da Tania Bruguera di profumate bustine di tè, piacevolmente brune e odorose, inghiotte il visitatore in un ambiente dove, sollecitato sensorialmente, sente di trovarsi sulle prime in uno spazio che evoca la convivialità della preparazione del tè, e solo dopo un po' si sorprende a valutare quanto di colonialista ci sia ancora in questa consuetudine. Perché, come scrive l'artista, «le bustine del tè sono una metafora perfetta della deculturalizzazione: un prodotto e una tradizione dell'India, portato in Inghilterra dai conquistatori e reinterpretato come fosse loro, poi reimportato in India come abitudine inglese». Nell'opera l'artista ricostruisce il suo viaggio in India, mostrandoci anche dei minuscoli video su schermi incassati sulle soffici pareti della galleria. Il suo titolo, Poetic Justice, è appropriato: lo sguardo del poeta o dell'artista rivela realtà celate da luoghi comuni difficili da rovesciare.

C'è un'artista che ha fatto del cucire la sua azione costante, come riparazione, cura, intenzione di rimarginare lacerazioni e ferite. È la coreana Kimsooja, che nei grandi schermi della sua videoinstallazione A Needle Woman vediamo farsi ago essa stessa, esile e dritta, di spalle di fronte a noi, spettatrice come noi di chiassose scene di strada, mentre osserva il mare di gente che le viene incontro nelle grandi megalopoli del mondo e cuce insieme, con la sua presenza immobile, le folle dell'India, del Cairo, di New York, di Shangai, di Città del Messico.

Prendersi cura, riparare, lavare, lenire, provare compassione. Azioni e sentimenti legati al femminile da tempi ancestrali.

Come nel video di Lida Abdul che, dall'Afghanistan, affida al gesto lento della pennellata il dolore per le macerie morali e materiali di tutte le guerre: dipinge di bianco, il colore del lutto, le rovine lasciate da una guerra senza fine che ancora brucia nel suo paese.

Lo sguardo d'amore con cui Miyako Ishiuchi ha ripercorso l'ultimo anno di vita della madre anima il padiglione giapponese di una luce speciale. L'artista ne fissa il ricordo in grandi fotografie che ci mostrano la trasformazione del corpo, la carne straziata dalla malattia. Con occhi commossi si sofferma sugli oggetti che le sono appartenuti e ce li restituisce in nitidi primi piani: la biancheria, le scarpe, la dentiera, una spazzola. Le immagini si fanno invece sgranate, evocando la sfocatura e la lontananza del ricordo, nei vecchi scatti da album di famiglia proiettati sul pavimento.


Rebecca Belmore, Fountain, 2005

Nel rito lustrale officiato da Rebecca Belmore, artista nativa americana nel padiglione canadese, c'è l'acqua, ma c'è anche il fuoco. Il video Fountain, proiettato su una parete d'acqua scrosciante, ce la mostra compiere forse un rito di purificazione nell'acqua fredda grigia e calma del mare, nella lattiginosa luce invernale, ma quando ne esce e scaglia verso lo spettatore il contenuto del pesante secchio che ha riempito, l'acqua si trasforma in sangue e vela lo schermo attraverso cui ci appare la sua immagine offuscata.

Il rosso, evocatore di una carnalità corporea e feconda, di flussi mestruali e ventri accoglienti, inonda il padiglione francese, che Annette Messager (Leone d'Oro per il padiglione nazionale) trasforma in uno scarlatto Casino, un po' circo, un po' grande utero, che inghiotte Pinocchio – creatura a metà: burattino che vuole trasformarsi in ragazzo – e ci fa partecipare al suo viaggio iniziatico, attraversando stazioni che evocano la sua storia, avvertita con inquietudine come universale. È in un baraccone da Paese dei Balocchi, steso su una traversina, forse addormentato, che Pinocchio inizia il viaggio della trasformazione. Si infila nel tunnel, passa attraverso l'enorme ventre della balena, rosso, mosso da un respiro potente, tra lacerti della sua silhouette, che, lugubre, ricorda anche la maschera del dottore della peste del carnevale veneziano. Nell'ultima stanza si conclude il suo percorso: una sorta di rete da circo accoglie e fa volare, come in un numero di acrobazia, frammenti del Pinocchio-umano ormai trasformato, ma a costo di uno smembramento, che lo riporta perciò alla condizione di fantoccio.

La balena è anche pescecane, come ci ricorda Collodi, e il suo ventre accogliente potrebbe rivelarsi infido e tagliente.

L'inquietante dualità del femminile messa in luce da Melanie Klein – madre buona che nutre e accarezza, madre cattiva che ferisce – ritorna anche in + and – di Mona Hatoum, che ci aveva già abituati ad ambigui détournement di placidi oggetti domestici proposti in scala gigante. Qui un grande cerchio di sabbia posato sul pavimento è "pettinato" dalle lame di due raggi allineate a segnare un diametro, che girano lente tracciando e cancellando incessantemente la stessa forma minimale, in una ciclicità temporale sempre uguale a se stessa. Nell'azione calma che rimanda al mescolare e spalmare una crema, alla cura tranquilla di un giardino zen, si cela però una violenza sottile, le lame sono affilate, ci raccontano di una donna che governa sì le leggi cicliche e temporali della natura, cura e nutre, ma non è immune da un'aggressività percepibile sottotraccia.

Il femminile è però anche insospettabile forza celata dietro un'apparente fragilità, come ci ricorda l'iraniana Mandana Moghaddam nella sua installazione Chel Ghiss II (40 trecce) [3].

Un grande blocco di cemento pende dal soffitto, sospeso in aria da quattro trecce di capelli tra cui passa un sottile nastro rosso. La fragilità dei tiranti, l'equilibrio precario della sospensione ci appaiono allora metafora della forza femminile che, a dispetto di ogni legge fisica, sostiene l'ottuso cubo di cemento, pesante e opaco. C'è tensione in quest'opera, un bilanciamento che può interrompersi, un equilibrio che può collassare, ma ora è miracolosamente saldo, a dispetto di ogni legge fisica e pregiudizio sociale. Le donne sono forti più di quanto si possa immaginare, anche e soprattutto nella soffocante società iraniana.

Di altro segno, ma sempre nel senso dell'elogio del femminile, è l'intervento che Pipilotti Rist pensa per la chiesa di San Stae, ulteriore spazio assegnato alla Svizzera lontano dalla confusione dei Giardini. E proprio come spazio "altro" è stata concepita la chiesa: non un semplice contenitore di immagini, ma una scatola a sorpresa per un'esperienza polisensoriale e coinvolgente, in sintonia con lo spirito barocco del luogo. Come un grande affresco che si anima, una videoproiezione ricopre l'intera volta della chiesa: Pipilotti ci invita a riempirci gli occhi con le sue immagini fluttuanti, caleidoscopiche, un po' kitsch, di paradisi perduti, facendoci distendere su morbidi materassi, come enormi foglie tropicali posate sul pavimento della chiesa. Nelle orecchie una musica ipnotica un po' new age, nella penombra rischiarata dalle visioni sulla volta ci si lascia prendere dall'atmosfera paradisiaca da "lusso calma e voluttà".

Homo sapiens sapiens è il titolo della videoinstallazione, ma questo mondo delle origini è abitato solo da figure femminili, da nudi di donna che galleggiano in un habitat paradisiaco tra fiori carnosi e foglie giganti, un universo perfetto da cui è polemicamente escluso l'uomo.

All'esperienza sinestetica ci invita anche Mariko Mori, ma in chiave futuribile e vagamente mistica: verso la fine delle Corderie ci accoglie nella sua candida capsula-utero, che somiglia a un'astronave, e ci promette un viaggio fisico e mentale, che attivi e acquieti i sensi e ci predisponga all'empatia verso l'altro. Il suo sguardo fiducioso sul futuro, come in altre sue opere, coniuga oriente e occidente, fantascienza e tradizione, in una visione incantata e positiva.

Molto più inquietante è il futuro prospettatoci e messo in scena in The Absent Presence da Hussein Chalayan, artista e stilista turco cipriota, ma in realtà cittadino del mondo. All'algida e androgina Tilda Swinton è affidato un ruolo ambiguo e misterioso: come una gran sacerdotessa, nel suo gelido laboratorio-lavanderia tutto acciaio, ci parla di manipolazione genetica dai tanti schermi che la mostrano intenta ai suoi rituali alchemico-fantascientifici. Verrà un giorno – ci fa capire – in cui il filo con cui è intessuta una maglietta ci dirà tutto di chi l'ha indossata: età, razza, provenienza.

Scenari futuri

Questi ultimi due lavori ci riportano a un altro tema forte della mostra, toccato anche nelle esposizioni a latere: lo sguardo apprensivo sul futuro, che si salda alla consapevolezza del destino di dover vivere in uno stato di difficoltà permanente.

Un futuro apocalittico e quanto mai prossimo ci vedrà costretti a ricreare piccoli mondi domestici, tenuti in vita entro fantascientifiche bolle sospese, come enormi ricostruzioni di processi genetici in atto (Chromosoma di Enrico Tommaso De Paris allo Spazio Thetis).

Ma l'emergenza in realtà è già tra di noi, come ci ricordano George Hadjimichalis e Lucy e Jorge Orta. Il mondo, i paesi poveri hanno bisogno di acqua, hanno bisogno di sangue.

Il primo intitola Hospital la sua installazione nel padiglione greco, concepita come un percorso attraverso momenti differenti dell'esistenza umana per arrivare a una rinnovata percezione della vita e della morte. E, soprattutto, si fa promotore di un'iniziativa a sostegno della donazione del sangue, in accordo con l'AVIS, presso l'ospedale di Venezia, propagandandola con dépliant e volantini da un apposito chiosco costruito davanti all'ingresso dei Giardini, sotto le insegne di croce rossa e mezzaluna rossa.

Lucy e Jorge Orta reagiscono con il loro lavoro Drinkwater! alla Fondazione Bevilacqua La Masa, con evidente gioco di parole, a quella che è la vera tragedia del nostro tempo: la carenza di acqua. E progettano un sistema di potabilizzazione dell'acqua del Canal Grande, che dopo sarà replicato anche a Rotterdam per le acque dell'Atlantico. Poi immaginano improbabili trabiccoli, macchinari complessi che sembrano usciti dall'officina di Archimede Pitagorico per il suo trasporto; realizzano abiti teatralmente e angosciosamente metaforici, attraversati da decine di cannucce per non sprecare neanche una goccia di preziosissima acqua, in un'ambientazione da apocalittico anno zero.

Ma l'angoscia per il futuro che è già tra noi può essere anche sottilmente evocata dal grido lancinante che fa voltare attonite le folle proiettate sui vecchi e arrugginiti locali di stoccaggio del petrolio, all'Arsenale, sede del padiglione cinese nel Giardino delle Vergini. Shout, Grido, l'installazione di Xu Zhen, ha il suo verso nell'installazione luminosa Flash di Liu Wei, che le si affianca sul lato opposto dei magazzini, dove potenti flash "sparano" sugli occhi dei visitatori luce abbagliante, ricreando, insieme all'urlo, le condizioni di vita alienata e frenetica delle megalopoli contemporanee, babelici agglomerati umani.

Traduttore/traditore?

Nella Babele delle lingue della società del terzo millennio, che tende all'omologazione nei consumi, ma dialoga e si intende sempre meno, una riflessione sulla comunicazione si rivela dunque necessaria.

Eva Koch, per esempio, lavora sulla traduzione e sulla trasformazione della lingua, sulla inevitabile perdita di qualcosa che si verifica nel passaggio da un sistema di comunicazione a un altro. Eppure la sua traduzione del I Canto del Paradiso di Dante in linguaggio per non udenti è particolarmente forte e poetica. Nel video Approach, proiettato all'interno del padiglione danese, la telecamera volteggia sul gruppo dei traduttori/attori in grigio e i loro gesti sono toccanti e dolcemente evocativi.

«Attenzione: la percezione richiede impegno» ci ammonisce Antoni Muntadas all'ingresso del padiglione spagnolo, invitando esplicitamente il fruitore alla consapevolezza critica, all'attenzione costante ai codici linguistici.

Sentenza forte, più incisiva delle frasi "tatuate" da Barbara Kruger, Leone d'Oro alla carriera, sulla facciata del Padiglione Italia – le cui colonne sostengono Potere, Piacere, Desiderio, Disgusto – che parlano come al solito di profitto, denaro, dell'essere che è avere. Troppo generiche ed estetizzanti, da apparire assolutamente innocue.

Al contrario, le complesse e sottili speculazioni sulla comunicazione di Muntadas si articolano sul meta-tema che ormai occupa i suoi progetti più recenti: On translation. Ovvero: sulla traduzione. Una serie di opere attraverso cui analizza i codici di comunicazione contemporanei, soffermandosi sull'uso degli spazi pubblici, sui rituali collettivi, sulla trasformazione dei luoghi e del senso con cui vengono percepiti.

Il tema centrale è site specific. On translation: I Giardini è una riflessione sulla storia della Biennale, sull'area espositiva, sui padiglioni e sui cambiamenti di segno e di senso che ci sono stati nel corso del tempo. Una Biennale come "parco a tema", una sorta di Disneyland dell'arte contemporanea. Tutto questo mostrato a un pubblico che, come in una sala d'attesa di un aeroporto, guarda seduto le immagini che scorrono sui monitor. Intorno, foto che mostrano la nostra società omologata dalle file: per una mostra, per il permesso di soggiorno, per il taxi (On translation: Stand by).

Poi, tra i tanti progetti, si approda alla sala con l'installazione più coinvolgente: On translation: El aplauso, pensata nel 1999 in occasione di un soggiorno in Colombia. Una grande videoproiezione che come un trittico abbraccia lo spettatore. Ai due lati il primo piano di un battimani corale, al centro al pubblico che applaude impassibile si alternano immagini di violenza. E l'applauso continua, forte e chiaro, e uniforma tutto. Un'opera che rende bene il clima di violenza politica e di criminalità che si vive in Colombia, percepito però nell'atmosfera di calma, sia pur apparente, che si respira a Bogotà. E che può valere per molte altre realtà a noi contemporanee.


Pipilotti Rist, Homo sapiens sapiens, 2005

Il lato buffo delle cose

L'ironia, infine, è una chiave efficace per attivare uno sguardo critico sulla realtà, come ci ricorda Maria de Corral nel suo testo introduttivo, molto frequentata dagli artisti invitati a questa 51. Biennale.

Tino Sehgal, per esempio, nel padiglione tedesco, propone un divertente approccio al tema serio dell'effettivo ruolo dell'arte nel sistema economico globale. Sorridenti performer di mezza età, vestiti con le uniformi del personale della mostra, accolgono saltellando il visitatore, volteggiandogli attorno e canticchiando: «This is so contemporary, contemporary!», per poi provare a ingaggiare una discussione a fine visita sullo stato attuale del sistema dell'arte e proporre, grati, un simbolico rimborso economico da riscuotere all'uscita (sul serio!).

L'ironia si tinge invece di mestizia nella lunga performance di Mark Wallinger, che vive per nove notti da recluso nella Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe a Berlino, travestito da orso, l'animale simbolo della città. Il buffo travestimento si rivela alla fine una metafora della condizione dell'artista contemporaneo, solo e afono, imprigionato in un magnifico contenitore che lo separa però ineluttabilmente dal mondo reale.

Forse è più facile, come ci suggerisce Lara Favaretto, considerare l'arte e il cinema delle origini come serbatoi di immagini e invenzioni da ricreare in un clima incantato, come piccoli numeri spettacolari, in un lungo piano-sequenza sulle rive e nelle acque di un lago. Un invito a una gita in un mondo immaginario, che ci regala buffe visioni che si dipanano lievi e felici nel suo video La terra è troppo grande.

Oppure ci si può confrontare con la genialità magica di Méliès, come fa William Kentridge con le sue delicate e giocose animazioni in bianco e nero, che si rincorrono sulle pareti della sala. Non ci stancheremmo mai di guardarle.

L'ironia può poi aiutarci a osservare con più lucidità alcuni archetipi della contemporaneità: il telegiornale, per esempio. La sua immagine totemica, il suo proporsi come finestra sul mondo, messaggero solenne dei grandiosi o tragici eventi che vi accadono quotidianamente. I conduttori delle News di Kim Beom, nel padiglione coreano, ci raccontano enormi banalità, mentre accanto a loro appaiono le figure dei grandi della terra o di terribili disastri. In realtà i suoi divertenti notiziari nascono da una meticolosa operazione di collage: ogni parola è tratta da un diverso TG ed è stata poi montata in successione con altre per formare banalissime sentenze di buon senso comune, pronunciate però con tutta l'autorevolezza che sa emanare un telegiornale.

Il fregolismo dei cambi d'abito di Kuang-yu Tsui, per adeguarsi ai ruoli molteplici e mutevoli che ci impone la frenetica realtà urbana contemporanea, ci fa riflettere con un sorriso sul nostro essere sempre più utenti e meno individui, conducendo – come ci suggerisce l'artista taiwanese – una "vita superficiale" (The Shortcut to the Systematic Life: Superficial Life).

Un sorriso ci strappano anche i due artisti russi dei Blue Noses, che ripropongono in chiave demenziale piccole gag da vecchie comiche in grandi scatoloni a sorpresa, o l'ungherese Balázs Kicsimy nei suoi paradossali Esperimenti di navigazione, con una surreale caricatura del viaggiatore, in realtà ancorato e incatenato alla propria dimora (Sweet Home).


Hussein Chalayan, The Absent Presence , 2005

Con quali immagini lasciare questi spazi per custodirle a lungo dentro di sé? Forse bisognerebbe tornare a immergersi nel respiro di Beckett e Navridis, e chiudere così il ciclo da dove si era partiti, o piuttosto conservare la memoria di opere che parlano del tempo e della sua relatività.

Valeska Soares, per esempio, costruisce una sala da ballo completamente rivestita di specchi sulle rive dell'Arsenale. All'interno, poco a poco, si popola di fantasmi di danzatori che si intrecciano e scompaiono, ognuno seguendo il suo passo, senza musica, spesso senza neanche il compagno. Come se riemergesse per qualche istante il vissuto di quelli che l'hanno abitata, o come ne L'invenzione di Morel di Bioy Casares, dove gli stessi eventi e le immagini fantasmatiche dei protagonisti sono condannati a ripetersi nel tempo, incessantemente e ineluttabilmente, attori di un teatrino che è solo simulacro.

Ancora, nella videoinstallazione di Natalija Vuiosevic In case I never meet you again, nel padiglione di Serbia e Montenegro, i due grandi volti di profilo di un uomo e di una donna che si guardano negli occhi, dilatando l'istante nella durata, tremando impercettibilmente al ritmo del respiro, hanno tutta l'intensità dell'attimo rivelatore, che sfida la temporalità consueta, per durare a lungo e nutrirsi dello sguardo dell'altro… "nel caso non ti dovessi più incontrare"…

Forse però la conclusione più appropriata a questo peregrinare si può affidare alle due opere opposte e in qualche modo speculari che ci regala Laura Belem: The Lovers, con l'immagine sognante di due barche, ferme sull'acqua all'ombra delle volte di Sansovino, che si fronteggiano, volgendosi ognuna alla luce dell'altra, parlandoci di illuminazione nell'oscurità; e l'installazione sonora con il vocio, i rumori che vengono dalla strada e l'abbaiare dei cani che, sempre più aggressivo, ci accompagna per i lunghi corridoi dell'Arsenale fino all'uscita, lasciandoci addosso una sottile inquietudine. Come è giusto che sia al termine di un simile viaggio.

Roma, agosto 2005


Note

[1] Le Guerrilla Girls, l'enorme lampadario in piccoli tamponi simil-Murano, macro oggetto pop di benvenuto alle Corderie costruito da Joana Vasconcelos.

[2] ¿Quien puede olvidar las huellas? (Chi può dimenticare le impronte?, 2003), performance ripresa in video in memoria di tutte le vittime del conflitto armato in Guatemala e contro la candidatura illegale alle elezioni presidenziali di Efraín Ríos Montt, incriminato per genocidio, ma resa possibile a causa della corruzione della magistratura.

[3] L'opera fa parte di un ciclo ispirato a un'antica fiaba iraniana, che narra di una fanciulla bellissima imprigionata in uno splendido giardino da un mostro, che non le appare mai. Lei sa che solo catturandolo e rompendo il globo di vetro che egli possiede, questi morirà e nel paese tornerà l'acqua di cui l'aveva privata. E allora tenta la difficilissima impresa.