La Critica

Note in conclusione di Biennale

di Alessandra Cigala

 

Ha ancora un senso, dopo il crollo delle Twin Towers, soffermarsi a riflettere sulla Biennale che sta per concludersi? Una Biennale nata sotto il segno ottimistico dell'interesse verso l'essere umano in quanto tale, e perciò «piattaforma dell'umanità», che ha raccolto l'eredità utopica e sciamanica di Beuys, padre carismatico dell'intero progetto. Una Biennale che si apre su una «platea del pensiero», all'insegna dell'Homme qui pense di Rodin, a cui fa da contrappunto l'Homme qui marche, in una visione romantica e insieme positivista - più che globalizzante - in cui per pensiero non si intende unicamente quello occidentale, ma, secondo un'ottica vagamente antropologizzante, si dà pari importanza anche al pensiero «altro».

Che poi sulla stessa piattaforma convivano forme sofisticate di cultura come quella indu con frammenti di art brut o naif dei vari nord e sud del mondo - rappresentanti appunto dell'«altro» - in un mosaico che è prima di tutto scenografico, nulla toglie allo slancio ottimistico, visualizzato dalla marcia dell'uomo di Rodin, proiettato verso le magnifiche sorti e progressive dell'umanità.

Una fiducia tutta umanistica che coltiva l'utopia come motore per l'immaginazione, in cui l'arte, la poesia giocano un ruolo da protagoniste, cercando di opporre alla «mediocrità delle emozioni» progetti visionari di tutt'altro segno, per portare sul «trenino del futuro» valori quali tolleranza, dialogo, coltivazione del dubbio. Tolleranza nel suo significato originario che, come ricordava di recente Umberto Eco, vuol dire innanzitutto rispetto per l'altro, e almeno questo, nella nostra cultura, dovrebbe essere consolidato: la tolleranza della diversità dell'altro, come il fatto che comprendere la diversità dell'altro può essere fonte di ricchezza. Il dialogo interculturale come valore, quindi, consapevole della complessità e della difficoltà dello sforzo, e non un soave e vago multiculturalismo à la page.

Il tentativo di guardare al mondo con gli occhiali umanistici dell'interculturalismo c'è indubbiamente in questa Biennale, anche se non andrebbe mai dimenticato che si tratta sempre di una prospettiva "occidentale", perché l'arte che passa alla Biennale come ad ogni altro grande appuntamento internazionale è sempre l'arte che si produce in questa parte del mondo, elaborazione del progetto modernista dell'ultimo secolo, e anche gli artisti asiatici, africani, sudamericani che vi partecipano, a questa fanno riferimento, perché è ormai evidente che il contesto operativo del sistema dell'arte è lo stesso in tutto il pianeta. E del resto in un sistema sociale fondamentalista la prospettiva stessa del fare arte sarebbe assolutamente impensabile.

Gli automi velati di nero che ritmicamente si chinano, inginocchiati, al suono di sacre litanie nell'installazione di Sergei Shutov alludono infatti alla condizione di sottomissione che tutte le religioni ci impongono, perchè ognuna di esse si pone dogmaticamente come l'assoluto: così sul monitor scorrono intercambiabili caratteri arabi, romani, ebraici, cirillici, urdu, ideogrammi cinesi, e le litanie cambiano lingua ma non linguaggio.

Foto dell'installazione di Sergei Shutov, Abacus, 2001

Lo stesso Szeemann è del resto perfettamente consapevole del suo disegno utopico quando scrive che «... le possibilità che tutti gli individui possano costruire una famiglia non sono promettenti nonostante la fiducia nella globalizzazione e nell'abbattimento dei muri di qualsivoglia natura. Ogni giorno nascono nuovi conflitti - per ragioni etniche, religiose, di supremazia politica - che danno luogo a guerre. Gli artisti oggi reagiscono in modo ancora diverso rispetto a una decina di anni fa: non si richiede più un'affermazione spasmodica della propria identità, ma si fa appello a ciò che di eterno c'è nell'uomo...». E in fondo in qualche misura è vero: scomparsa come per incanto la dialettica oppositiva astrazione-figurazione ormai obsoleta, gli artisti si concentrano su tematiche sociali.

Gli strumenti privilegiati per questi interventi poetici o critici sulla realtà appartengono all'orizzonte dei mass media - soprattutto fotografia e video, senza peraltro utilizzarne al meglio, da parte dei più, le potenzialità - , così come le tecniche di comunicazione sono mutuate di preferenza dall'industria, dalla pubblicità, dal mondo delle merci. Si utilizzano, straniandole, tecniche e immagini dell'occidente tecnologico. Anche il tema dell'abitare un luogo, della dimora, si risolve quasi sempre in un'immagine claustrofobica o labirintica, in case-relitto riemerse da eventi apocalittici, in anfratti che nascondono inquietanti residui, con i banali oggetti di consumo del nostro vivere quotidiano muti testimoni di silenziose catastrofi.

Non è certo un occidente trionfalisticamente pieno di sé quello che esce dalla Biennale, ma la prospettiva umanistica che Szeemann ci propone è pur sempre inquadrabile nella cultura occidentale, inaugurando nel segno dell'utopia il millennio appena iniziato. Una visione che probabilmente non avrebbe mai pensato sarebbe stata così rapidamente e drammaticamente scavalcata dagli eventi.

Ma, in un occidente annichilito, colpito a morte nel suo cuore pulsante, che in pochi istanti ha visto polverizzarsi con le due torri, icone massime della modernità trionfante, ogni presunta posizione di guida nei processi di globalizzazione nel mondo, l'attacco terroristico ha rivelato che il re è nudo. Comincia a serpeggiare la tendenza a pensare che non è più tempo di ottimistici frullati multiculturali, si parla nuovamente la lingua della guerra, ma con un'inquietudine diversa, finora sconosciuta, ci si sente di colpo assolutamente vulnerabili, come mai prima d'ora, e le visioni utopiche e umanistiche sembrano andare in pezzi come i due grattacieli newyorkesi. Eppure... eppure i conti non tornano. Il fondamentalismo ha dovuto sposare la diabolica tecnologia occidentale per mandare a segno i suoi colpi, senza questa ogni arcaico richiamo alla fatwa o alla jihad resta vox clamantis in deserto. Nel momento stesso in cui la nega, è costretto a sottomettersi ad essa.

L'origine etimologca della «tecnologia» è del resto nelle parole greche téchne ("arte") e logos ("discorso"), quindi un «discorso sull'arte». Sempre qui si torna. Perché finché è possibile tenere un «discorso sull'arte» una civiltà può dirsi matura. Dove espressione artistica e pensiero estetico hanno libero corso ci sarà sempre una società che coltiva - pur tra mille contraddizioni e difficoltà - il rispetto per l'altro, la frequentazione del dubbio. Ma ha ancora un senso oggi per noi considerare la più avanzata tecnologia un libero «discorso sull'arte»? E le nostre metropoli sono ancora un possibile modello di «civiltà urbana» come la Firenze del '400 o la Venezia del '500?

Roma, 30 Ottobre 2001


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