La Critica

«Non si dipingono idee, non si dipinge ‘un soggetto’. Non ci sono che misteri. Non ci sono che domande» (*)

di Jacopo Benci

 

‘Lezione’ nel senso di ‘conferenza’ si dice in inglese ‘lecture’, parola che fa sentire l’idea di ‘lettura’ che è insita nel termine. Quello che farò sarà appunto di compiere una lettura, una mia lettura per immagini e testi. Leggendo parole altrui, portando altre voci, dando voce a parole non mie, attraversandole in un percorso non lineare.

La linea principale della cultura e dell’arte occidentale è radicata in un atteggiamento che illumina, mette in ordine, mette in prospettiva; disciplina, specifica, specializza; costruisce autostrade, viadotti che scavalcano montagne, enormi ponti che attraversano bracci di mare; organizza, funzionalizza, razionalizza; porta luce elettrica, antenne, reti informatiche, cavi telefonici in ogni angolo; installa telecamere a circuito chiuso, telecamere di sorveglianza, telecamere TV, microfoni, monitor, schermi, proiettori; disbosca, estirpa ciò che chiama erbacce, restaura per ritrovare quello che chiama lo ‘stato originario’; seleziona le sementi, manipola il genoma, costruisce organismi; sfrutta le risorse, organizza il turismo, seleziona le vedute…

Esiste, è possibile un’altra linea, un atteggiamento per cui la luce lasci spazio all’ombra?

L’Oriente ha qualcosa da dirci in tal senso.

Jun’ichirô Tanizaki: "…perché piace tanto, a noi Orientali, la bellezza che nasce dall’ombra? Anche gli Occidentali sono vissuti per lunghi secoli senza elettricità, senza gas, senza petrolio. Non credo, però, che abbiano mai amato l’ombra come noi. [...] La nostra immaginazione indugia su ogni raggrumarsi dell’ombra; gli Occidentali conferiscono, persino ai fantasmi, la trasparenza del vetro. I colori che amiamo, negli oggetti della vita quotidiana, sembrano il risultato di molti strati d’oscurità; gli Occidentali amano ciò che brilla, come per luce diurna. Ci piace che argento e rame acquistino la patina del tempo; per gli Occidentali, la patina significa sporcizia e mancanza d’igiene, e non cessano di strofinare i metalli perché acquistino la fulgidezza voluta. Nelle stanze in cui abitano, illuminano ogni anfratto, e imbiancano pareti e soffitti. Rasano i prati, che a noi piacciono cosparsi di cespi selvosi. Quale l’origine di gusti tanto dissimili? V’è, forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre c’inghiottano, e scopriamo loro una beltà. Al contrario, l’Occidentale crede nel progresso, e vuol mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l’ultima parcella d’ombra."

[Jun’ichirô Tanizaki, Libro d’ombra (1935), cap. 13, tr. it. Bompiani, pp. 67-68]

L’ombra ha un ruolo essenziale in quello che possiamo considerare il mito di fondazione dell’arte occidentale. Narra Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale [XXXV, xv]:

"…il vasaio Butade Sicionio scoprì per primo l’arte di modellare i ritratti in argilla; ciò avveniva a Corinto ed egli dovette la sua invenzione a sua figlia, innamorata di un giovane. Poiché quest'ultimo doveva partire per l'estero, essa tratteggiò con una linea l'ombra del suo volto proiettata sul muro dal lume di una lanterna; su quelle linee il padre impresse l’argilla riproducendone il volto; fattolo seccare con il resto del suo vasellame lo mise a cuocere in forno".

Felice Giani, La fanciulla di Corinto, fine XVIII-inizio XIX secolo

Si dice che l’immagine creata da Butade venne a lungo custodita nel tempio.

Come nota Jean-Christophe Bailly nel suo bel libro L’apostrofe muta, nella storia di Butade e di sua figlia è degno di nota "…anche e innanzitutto il fatto che di colpo l’assenza viene ritenuta la condizione o l'occasione dell'atto figurativo, la ragione del ritratto. La scena che dà corpo all’invenzione del ritratto è un dispositivo sentimentale: l'immagine è ciò che trattiene l’assente, colui che se ne va ‘all’estero’. Come è noto, ‘partire’ è un eufemismo per morire, ed è anche ‘un po’ morire’. La partenza assoluta della morte (in qualsiasi modo la si concepisca, le si accordi o meno il valore di un ritorno, essa è sempre partenza, dipartita dalla vita) si profila dunque dietro la motivazione sentimentale del ritratto. L’assenza legata alla distanza, nella sua inquietudine, vede passare il fantasma di un'assenza definitiva: il ritratto scongiura simultaneamente, piegandole l'una sull'altra, queste due assenze. Siamo qui nel cuore di una compenetrazione che per noi è divenuta una specie di automatismo, ma che possiede nondimeno una propria genesi. Proprio in questa genesi si pone, con la sua valenza fondativa, il mito di Plinio, e in essa prendono posto, come episodio più tardo, i ritratti del Fayum.

Ciò che per noi è ormai naturale venne formulato in modo quasi programmatico da Alberti all'inizio del Libro II del De Pictura: "Tiene in sé la pittura forza divina non solo quanto si dice dell'amicizia, quale fa gli uomini assenti essere presenti, ma più i morti dopo molti secoli essere quasi vivi" [...].

Questo esempio mostra "un rapporto con l’immagine che sarà sviluppato a scale diverse sino a noi [e in cui] la funzione mimetica e consolatrice opera al di fuori di ogni volontà artistica. Questo rapporto struttura ancora per l’essenziale l’uso corrente che facciamo della fotografia, e quando Susan Sontag [Sulla fotografia], ad esempio, descrive questa tecnica come allo stesso tempo "una pseudopresenza e l’indicazione di un’assenza", essa non fa altro che riprendere il vecchio schema albertiano, a sua volta ripreso da una concezione greca, in tal modo, si ha l'impressione che con la sua lanterna veramente magica non solo la pittura, ma anche la fotografia e il cinema siano state segretamente inventate dalla fanciulla di Corinto."

[Jean-Christophe Bailly, L'apostrofe muta, Quodlibet, 1998 (1997), pp. 78-80]

Ritratti del Fayum (II secolo d.C.)

 

In principio il cristianesimo è ostile alle raffigurazioni della divinità, coerentemente con le proprie radici ebraiche. L’influenza ellenistica e neoplatonica finisce con l’aver la meglio, ma non senza conflitti (l’iconoclastia ne è il caso più evidente) e attraverso la mediazione del sovrannaturale: le prime immagini di Cristo, si ritiene, vengono in essere come impronte, ‘non dipinte da mano umana’: la sindone e la veronica.

Il nome di Veronica deriva dal composto ‘vera eikon’, e la sua leggenda sorge nel secolo VI: la pia donna Veronica accosta un velo al volto di Cristo per tergerlo da sangue e sudore, e l’immagine dell’Uomo di dolore vi rimane impressa permanentemente.

"Di singole immagini di legno o su tela abbiamo sporadicamente notizia a partire dal secondo terzo del IV secolo. [...] Tuttavia, a partire dalla metà del VI secolo, le testimonianze della venerazione delle immagini si moltiplicano in modo sorprendente e molti centri vantano immagini di origine miracolosa e che compiono miracoli. Si parla di immagini non dipinte da mano d’uomo, le cui virtù magiche servono a scopo apotropaico.

La più antica e più celebre immagine achiropita, citata per la prima volta fra il 560-574, è quella del Cristo, dipinta su tela, trovata da una donna pagana a Camulia, nella Cappadocia, e riprodottasi spontaneamente in due copie, ritenuta causa di guarigioni miracolose. Nel 574 questa immagine fu trasportata a Costantinopoli e, dopo aver servito da palladio dell’Impero in parecchie guerre, scomparve verso l’800. [...]

Altrettanto venerata era l’immagine del Cristo di Edessa, menzionata già nel 544. Dal ritratto ‘edesseno’ che sarebbe stato fatto per Abgar, re di Oshroene (179-216), possiamo supporre che si trattasse del tipo barbato con lunghi capelli, che siamo abituati a ritenere d’origine orientale [...]. Secondo S. Giovanni Damasceno (VIII secolo) [...] l’imperatore Costantino avrebbe fatto riprodurre in pitture e mosaici il volto umano del Cristo, che vien descritto come avente begli occhi, sopraccigli riuniti, lungo naso, capelli inanellati, barba nera, aspetto giovanile ("Epistola ad Theophilum", Migne, PG, III).

[...] L’immagine edessena si sarebbe conservata nella città sfuggendo a tutte le invasioni e, dopo il 944, sarebbe stata trasferita a Costantinopoli dove fu conservata sotto il nome di santo ‘mandylion’ nel palazzo imperiale del Bukoleon fino alla conquista di Costantinopoli da parte dei Latini (1204)."

[Enciclopedia Universale dell’Arte, voci ‘Cristianesimo’ e ‘Devozione’]

La natura documentaria, autentica, ‘fotografica’ di queste immagini non dipinte da mano umana garantisce la continuità della raffigurazione del volto di Cristo nella tradizione orientale, che si può seguire fino a El Greco, dunque per dieci secoli.

Salvatore fonte di gloria, icona bizantino-macedone (1394)

Con l’invenzione della fotografia sembra affermarsi definitivamente la possibilità di immagini inequivocabilmente ‘vere’ nel senso della ‘acheiropoietos’. La riflessione più nota sulla fotografia e sulla sua natura di impronta, calco, vera icona, ‘arresto del tempo’ è quella di Roland Barthes:

"La photo est littéralement une émanation du référent. D’un corps réel, qui était là, sont parties des radiations qui viennent me toucher, moi qui suis ici" (La chambre claire [1980], II, §34, p. 126)

"La photographie a quelque chose à faire avec la résurrection: ne peut-on dire d’elle ce que disaient les Byzantins de l’image du Christ dont le suaire de Turin est impregné, à savoir qu’elle n’étais pas faite de main d’homme, acheïropoïetos?" (La chambre claire, II, §35, p. 129)

La riflessione di Barthes sulla natura ‘unheimliche/heimliche’ della fotografia, pur in tutta la sua intelligenza e bellezza, rinuncia man mano che procede a mettere in discussione —anche da un punto di vista sociale— la funzione della fotografia.

Messa in discussione che venne invece attuata, tre anni prima di Barthes, da Susan Sontag in Sulla fotografia (1977).

"L’avvenire può riservarci un [...] tipo di dittatura, la cui idea guida sia ‘l’interessante’ e dove prolifichino immagini d’ogni sorta, stereotipate ed eccentriche. [...] Sembra però che non ci sia modo [...] di limitare la proliferazione delle immagini fotografiche. Il solo problema è se la funzione del mondo delle immagini creato dalle macchine fotografiche potrebbe essere diversa da quella che è. La funzione attuale è abbastanza evidente, se si tien conto del contesto nel quale vediamo le immagini fotografiche, delle assuefazioni che provocano, degli antagonismi che placano, vale a dire delle istituzioni che sostengono, delle necessità alle quali realmente rispondono. Una società capitalistica esige una cultura basata sulle immagini. Ha bisogno di fornire quantità enormi di svago per stimolare gli acquisti e anestetizzare le ferite di classe, di razza e di sesso. E ha bisogno di raccogliere quantità illimitate d’informazioni, per meglio sfruttare le risorse naturali, aumentare la produttività, mantenere l’ordine, fare la guerra e dar lavoro ai burocrati. La duplice capacità della macchina fotografica, quella di soggettivare la realtà e quella di oggettivarla — è la risposta ideale a queste esigenze e il modo ideale di rafforzarle. Le macchine fotografiche definiscono la realtà nelle due maniere indispensabili al funzionamento di una società industriale avanzata: come spettacolo (per le masse) e come oggetto di sorveglianza (per i governanti). La produzione di immagini fornisce inoltre un’ideologia dominante. Al mutamento sociale si sostituisce un mutamento nelle immagini. La libertà di consumare una pluralità di immagini e di beni viene identificata con la libertà tout court. Il restringere la libera scelta politica al libero consumo economico esige che la produzione e il consumo di immagini siano illimitati.

L’ultima ragione del bisogno di fotografare tutto è nella logica stessa dei consumi. Consumare significa bruciare, esaurire, e postula quindi una necessaria reintegrazione. Man mano che facciamo e consumiamo immagini, abbiamo bisogno di altre immagini e di altre ancora. Ma le immagini non sono un tesoro per impadronirsi del quale occorra perlustrare il mondo; sono esattamente ciò che abbiamo a disposizione ovunque si posi il nostro occhio. Il possedere una macchina fotografica può ispirare qualcosa di simile alla libidine. E come tutte le forme credibili di libidine, non può mai essere interamente soddisfatta: prima di tutto perché le possibilità della fotografia sono infinite, in secondo luogo perché alla lunga l’operazione tende all’autodistruzione. [...] Le macchine fotografiche sono la malattia e l'antidoto, un mezzo per appropriarsi della realtà e un mezzo per renderla obsoleta."

[Susan Sontag, Sulla fotografia (1977), tr. it. Einaudi, 1978, pp. 154-155]

 

La critica di carattere sociale e politico dell’immagine come ‘impronta’ coglie però solo un aspetto della questione.

Qual è lo statuto etico di queste immagini che coaguliamo, per così dire, in oggetti estetici e che trasformiamo in merci?

Ha scritto Emmanuel Lévinas in La realtà e la sua ombra (1947):

"La statua realizza il paradosso di un istante che dura senza avvenire. L’istante non coincide in realtà con la sua durata. Non si dà qui come l’elemento infinitesimale della durata — istante di un lampo — ma ha, a suo modo, una durata quasi eterna... All'interno della vita o piuttosto della morte della statua, l'istante dura infinitamente; in eterno Laocoonte sarà preso nella stretta dei serpenti, in eterno la Gioconda sorriderà. In eterno l’avvenire che s'annuncia nei muscoli tesi di Laocoonte non riuscirà a diventare presente. In eterno il sorriso della Gioconda, che sta per sbocciare, non sboccerà. Un avvenire eternamente sospeso fluttua intorno alla posizione stereotipata della statua come un avvenire per sempre avvenire... Situazione in cui il presente non riesce ad assumere nulla, non riesce a prendere nulla su di sé — e, perciò, istante impersonale ed anonimo" (trad. it. in E. Lévinas, Nomi Propri, Marietti, pp. 183-184).

Questo ‘istante impersonale e anonimo’ richiama la formulazione dello stesso Lévinas dell'il y a come fenomeno dell'essere impersonale:

"Il y a come ‘piove’ o ‘fa notte’. E non c'è né gioia né abbondanza: è un brusio che ritorna dopo ogni negazione di questo brusio. [...] Di questo il y a che persiste non si può dire che è un evento d’essere. Non si può dire neppure che è il nulla benché non ci sia nulla" [Lévinas, Etica e infinito (1975), tr. it. Città Nuova, 1984, pp. 67-68].

"...per uscire dall'il y a bisogna non porsi, ma deporsi, compiere un atto di deposizione nel senso in cui si parla di re deposti. La deposizione della. sovranità è per l’io la relazione sociale con altri, la relazione dis-inter-essata. Lo scrivo in tre parole per sottolineare l’uscita dall’essere che essa significa. Io diffido della parola amore che è svilita, ma […] la responsabilità per altri, l'essere-per-l'altro mi è sembrata capace di far cessare il brusio anonimo e senza senso dell'il y a" [Lévinas, Etica e infinito, pp. 71-72].

Dunque le sole immagini che non ci distolgano da questa relazione con altri —relazione che è primariamente, per Lévinas, relazione fra un Tu ed un Io— sono immagini fatte di transitorietà, che di questa parlano, e che invitano ad una lettura in divenire piuttosto che alla contemplazione immobile di qualcosa che è ‘idolo’, per dirla con Lévinas, perché arresto eterno di morte e non di vita.

Dalla fine degli anni Cinquanta alcuni artisti iniziano a muoversi nella direzione indicata da Lévinas, creando immagini in cui la centralità ‘iconica’ del soggetto e della narrazione lascia progressivamente il posto a pause, intervalli, momenti vuoti, transiti. Questo è ben visibile nel finale de L’eclisse di Antonioni. I due protagonisti si danno un appuntamento cui nessuno dei due si recherà; la macchina da presa si trova in quel luogo e filma tempi e spazi oltre e al di fuori della storia.

Nell’arte degli ultimi decenni si sono affacciati artisti, e sempre più spesso artiste, che hanno fatto della transitorietà lo strumento del proprio lavoro e del proprio pensiero.

Ana Mendieta, Untitled (Silueta), 1976, fotografia
di installazione temporanea, Mexico

Con i lavori dell’artista cubana Ana Mendieta torniamo di nuovo, ma con un altro approccio, a Plinio e alla storia della fanciulla di Corinto. Non è più il ceramista Butade ad essere protagonista, con il suo modellare l’ombra con la creta e farne una scultura permanente da conservare nel tempio, ma proprio la figlia con il suo atto transitorio.

Come scrive Jane Blocker nel suo libro Where is Ana Mendieta?, Butade "riempie l’ombra con la creta e cuoce questa in modo da renderla permanente. E’ il ritratto di creta ad essere conservato nel tempio, non il disegno sul muro. Questo fatto ha qui enormi implicazioni, particolarmente se intendiamo il tempio nella storia di Plinio come metafora di una sanzione istituzionale o storico-artistica. In questi termini, è necessario che consideriamo la differenza fra il disegno sul muro e il ritratto di creta, fra media transitori e media permanenti. […] Il ritratto di creta è un oggetto, che può essere acquistato, collezionato, conservato, ed esposto. Il disegno sul muro è temporaneo, specifico del luogo, e inafferrabile. In questo senso, la storia di Plinio prefigura anacronisticamente la controversia ideologica che ha avuto luogo nel mondo dell’arte nell’ultimo mezzo secolo fra quegli artisti che continuano a fare oggetti e quelli che fanno antioggetti."

L’artista americano Willoughby Sharp, in un saggio per il catalogo dell’importante mostra Earth Art, definiva le forme —allora sperimentali— di land art, performance, video, e concettuale come ‘arte impossibile’.

Secondo Jane Blocker, "l’opera di Mendieta è ‘impossibile’ nel senso che ricorda più da vicino il disegno sul muro della fanciulla che l’opera d’arte di Butade. E’ impossibile nei termini normativi dell’interpretazione, che richiedono un’arte finita, tangibile, e trascendente, un artista che abbia talento, sia identificabile, ed autorevole, e un pubblico che sia tenuto separato dal processo della creazione.

[…] in quanto ‘earthworks’, queste opere [di Mendieta] abbracciano la sparizione e la dissoluzione, […] sono contingenti, itineranti, e sradicate. Sono, per la maggior parte, perdute. Penso sia possibile riorientarsi verso l’idea che questa scomparsa non sia una perdita ma costituisca viceversa la maggior forza delle opere e la fonte della loro potenza emozionale. Questi media funzionano al meglio nell’esilio, al limite, sulla breccia, nel gap, nell’interstizio, e ci chiedono di considerare tali spazi non come negativi ma come non-marcati e perciò estremamente potenti."

Tanto i lavori che Ana Mendieta realizza con la terra, la creta, la sabbia, il fuoco, e le fotografie che scatta a questi lavori, sono strutturalmente impermanenti.

La posizione che assume Mendieta è di accettazione della transitorietà piuttosto che di rimpianto, di perdita, di lutto per questa transitorietà.

Nota ancora Jane Blocker: "Nel senso in cui tutte le opere di Mendieta comprendono un atto iniziale di creazione, la documentazione di tale atto, e la scomparsa o disintegrazione dei suoi componenti materiali si può dire che la sua arte è fondamentalmente basata sulla performance.

[…] Mendieta ha un’acuta consapevolezza della potenza della dissoluzione, dell’assenza, e dell’intangibilità. Ciò pone difficili questioni a noi spettatori; ci chiede di rinunciare al desiderio di acquisire e l’oggetto discreto in quanto cosa di valore quantificabile. Ci chiede di apprendere […] "a dar valore a ciò che è perduto". Voglio dire […] che noi attribuiamo valore a questa perdita, non perché la rimpiangiamo e desideriamo che fosse stato altrimenti, ma perché essa ci fa considerare la perdita come significativa in sé stessa."

[Jane Blocker, Where is Ana Mendieta?, Duke University Press, 1999, pp. 106-109, mia traduzione]

Inoltre, l’opera transitoria, sia essa o meno una performance nel senso proprio del termine, assume anche una posizione di carattere economico:

"La performance resiste alla equilibrata circolazione della finanza. Non risparmia nulla; spende soltanto." [Peggy Phelan, Unmarked, cit. in Blocker]

Performative e transitorie appaiono anche molte delle immagini di Francesca Woodman, che pur impiegando il mezzo fotografico mette in atto una sorta di scrittura di azioni e insieme di pensieri, fino ad arrivare in qualche caso vicino alla scomparsa della figura, verso quello che Hélène Cixous ha definito ‘opera d’essere’:

"[…] avevo fatto una distinzione tra ciò che avevo chiamato opere d’arte e le opere d’essere. Per me le opere d’arte sono opere di seduzione, sono opere che possono essere magnifiche, opere che sono veramente destinate a offrirsi alla vista […], a cercare i nostri occhi, non abbandonarli mai, catturarli […]. Ciò che […] nell’arte mi importa di più sono le opere d’essere, delle opere che non hanno più bisogno di invocare la gloria, o la loro origine magistrale, di essere firmate, di ritornare, di far ritorno per celebrare l’autore."

[Hélène Cixous, L’ultimo quadro o il ritratto di Dio (1983), trad. it. di Monica Fiorini, in cat. Œuvres d’être, Roma, Temple Gallery, 2000.]

Francesca Woodman, Untitled (Providence), 1976, fotografia

Questo allontanamento dall’oggetto verso l’evento, dalla presenza iconica verso la sparizione, dall’opera d’arte verso l’opera d’essere, dal possedere all’abbandonare, può essere chiamato con Heidegger ‘abbandono’ (‘Gelassenheit’), con il pensiero estremo-orientale ‘nulla’ o ‘vuoto’; Possiamo ancora comprenderlo in chiave lévinassiana:

"Ciò di cui non è possibile appropriarsi in nessun modo è l'avvenire; l'esteriorità dell’avvenire è totalmente differente dall'esteriorità spaziale proprio per il fatto che l'avvenire è assolutamente sorprendente. […] L’avvenire è ciò di cui non è possibile appropriarsi, ciò che cade su di noi e s'impadronisce di noi. L’avvenire è l'altro. La relazione con l'avvenire è la relazione stessa con l’altro."

"L'altro in quanto altro non è qui un oggetto che diventa nostro o che finisce per identificarsi con noi; esso, al contrario, si ritrae nel suo mistero."

"Se si potesse possedere, afferrare e conoscere l’altro, esso non sarebbe l’altro. Possedere, conoscere, afferrare sono sinonimi di potere."

[Emmanuel Lévinas, Il tempo e l’altro, 1946-47, trad. it. Melangolo, 1993, p. 46, 55, 59]

L’allontanamento da un percorso lineare, prospettico, iconico, centrato sulla certezza dell’io e del controllo panottico sul mondo, si manifesta anche nella modalità con cui lo Stalker del film omonimo di Andrej Tarkovskij (1979) si muove nella Zona in cui conduce coloro che vogliono giungere alla Stanza dove i più profondi desideri di ognuno saranno esauditi. Nella Zona le regole consuete di movimento nello spazio-tempo non valgono: il percorso più sicuro da un punto all’altro non è necessariamente la linea retta — o il suo opposto.

L’artista-fotografo Luigi Ghirri riprende piccoli centri e campagne della pianura padana fra Romagna, Veneto e Delta del Po manifestandone la dimensione remota e solitaria attraverso la non-linearità del suo percorso, la scelta di luoghi liminari. Spesso le immagini di Ghirri non presentano un luogo, ma piuttosto l’atto transitorio, ‘performativo’ di procedere verso un luogo.

Queste immagini sono parte di un ciclo intitolato Il profilo delle nuvole. Come negli altri suoi cataloghi e libri, Ghirri unisce qui le immagini ai suoi scritti. Assieme a questa immagine (Fidenza—Via Emilia) troviamo una riflessione su "...la strana idea che ci sia ‘qualcosa da vedere’, come una qualità assoluta dei luoghi, quotata da un listino di valori. Mentre in realtà non c’è mai niente da vedere, ci sono solo cose che ci capita di vedere con maggior o minor trasporto, indipendentemente dalla loro qualità".

Luigi Ghirri, Valli Grandi veronesi, c. 1980-89

L’artista anglo-francese Michael Mazière ha realizzato nel 1996 un breve video-film, Remember Me, in cui affronta la questione della transitorietà, dell’‘ombra’ in un modo che riassume molte delle considerazioni sviluppate nel corso di questo percorso.

Michael Mazière, Remember Me, 1996

Nel 2001 ho scritto un testo su quest’opera di Mazière, intitolato Twenty-seven fragments on "Remember Me". Con esso concluderò questa lezione:

Remember Me è un film di dieci minuti fatto di ventisette frammenti o segmenti (in realtà ventisei, perché un’inquadratura si ripete due volte).

La sospensione nel film è sublime. Gli anni Sessanta esplorarono spesso questa forma di sublime, il più delle volte per mezzo del bianco e nero. La scelta di Michael Mazière di usare il bianco e nero dev’essere deliberata.

Il film di Chris Marker La Jetée creava l’impressione del movimento tramite la stasi, le fotografie (tranne che per un breve frammento di film). Remember Me di Mazière crea un senso di sospensione, d’immobilità, attraverso il movimento.

Gli ultimi cinque minuti e mezzo de L’eclisse di Antonioni, per quanto complementino e concludano la storia vista fino ad allora, sono fuori e oltre di essa. Si tratta di una successione d’immagini, brevi azioni, a malapena correlate le une alle altre. Alcune sono più leggere, più brevi, altre sono più definite, come narrazioni in miniatura. Insieme, creano un discorso, stabiliscono un certo tono e un’atmosfera. Remember Me è composto in un modo simile.

I ventisette segmenti di cui è composto Remember Me sono connessi e separati da un ugual numero di brevi frammenti di schermo nero. Questi non sono solo partizioni, parentesi o pause. Spesso la colonna sonora continua durante questi secondi di schermo nero. Dunque questi vanno visti come parte di una narrazione ellittica.

O si tratta di una dis-narrazione?

Le inquadrature si collegano in un modo non immediatamente riconoscibile come narrativo. Alcune di esse, così come alcuni di quei secondi di schermo nero, sono spazi vuoti (il "bianco spazio delle congiunzioni" di Deleuze).

Remember Me è come una successione di aforismi o brevi frasi. Mi vengono alla mente le Notes sur le cinématographe di Robert Bresson, La chambre claire di Roland Barthes, e Espèces d’espaces di Georges Perec.

Ci sono spazi vuoti fra gli aforismi. Allo stesso modo ci sono silenzi in Remember Me. Bresson ha scritto: "Il film sonoro ha inventato il silenzio"(1). Wittgenstein ci ha avvertito che di ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere.

Remember Me è — toccante.

Mazière has definito Remember Me "un oscuro, ossessivo ed emotivo trattato sulla morte".

Remember Me è un ossimoro. Suscita qualcosa come una gioiosa tristezza. O un triste piacere.

Mi viene in mente la definizione che Barthes dà del ‘punctum’ in una fotografia, di come per qualche imperscrutabile —e spesso assai personale— ragione una fotografia può farci fermare e produrre in noi sentimenti (e pensieri) per cui non sappiamo trovare una definizione chiara. Possiamo a malapena definire, individuare il lavorio interiore che si determina. Barthes chiamava ciò ‘un travail’. (2)

Il film non è la fotografia, ma è nato da essa. Il lavoro di Mazière ha una relazione con la fotografia. Mazière ha iniziato come fotografo. Quando cominciò a lavorare come film-maker —ha scritto— "il pensiero di 24 fotogrammi al secondo, dopo aver lavorato su ogni fotogramma con attenzione nella fotografia, mi sembrava quanto meno eccessivo". (3)

Remember Me è molto esatto. La sua struttura, i suoi ritmi interni, sono precisi. Bresson ha scritto: "La precisione è un’altra forma di poesia".

Qual è la struttura temporale di Remember Me? Vi è in esso una struttura temporale? V’è un prima e un dopo? Il video si svolge giustapponendo molte inquadrature diverse, molti strati differenti. Tempi diversi sono inscritti in ciascuna inquadratura. Quasi tutte sono rallentate.

L’ombra di un uomo si muove su un prato e una teoria di pietre tombali apre e chiude il video. Questo deve essere ‘presente’.

Possiamo leggere le inquadrature successive come ‘passato’: lo sguardo intento di un bambino, una vecchia ripresa dell’incidente d’auto di Albert Camus in Francia, le mani di un uomo che suona il piano, una riunione di famiglia: un vecchio con gli occhiali solleva il suo bicchiere in un brindisi, e un’anziana signora che offre dei biscotti. Poi, una bambina e la sua ombra che procedono lungo il corridoio di una casa...

Ci sono ombre in Remember Me.

La fotografia è stata generata dal costante tentativo umano di catturare un’ombra della vita. La storia di questo tentativo è una storia di ombre, di impronte, di sindoni.

Le ombre e le immagini fuggitive in Remember Me attingono all’antica storia della figlia di Butade, vasaio di Sicione. L’amato della ragazza stava lasciando il paese, e lei tracciò il contorno dell’ombra gettata dal suo profilo sul muro alla luce di una lucerna... (4)

Ci sono due messaggi scritti in Remember Me. Vediamo il primo quasi all’inizio: un biglietto manoscritto dice, "Remember me!". Il secondo lo vediamo proprio al termine: "Jacques Mazière, 1923-1991", leggiamo su una lapide.

Stéphane Mallarmé ha scritto: "Ogni uomo ha un segreto in sé, molti muoiono senza trovarlo, e non lo troveranno mai perché sono morti, esso non esiste più, e così loro" (5). Remember Me dice qualcosa su tale segreto.

Parlando del suo lavoro, Mazière ha scritto: "Volevo fare film che fossero audaci ma visivamente accessibili e comunicassero i processi della percezione. Mi interessava il modo in cui la percezione è il risultato di un processo; il fatto che siamo attivi in essa e vi contribuiamo in egual misura. C’era la ricerca di un aspetto nascosto del mondo visivo che rasentava il misticismo, un aspetto del cinema sperimentale che era costantemente e ferocemente negato dalla teoria strutturalista." (6)

Con Remember Me (come con un suo lavoro successivo, Blackout), Mazière si è slanciato oltre il meramente concettuale, al di là di quanto riguarda solo idee, teorie, forme, e strutture. Ha raggiunto un territorio che può apparire solo legato alla morte e alla perdita, rivolto indietro al passato, ma è in realtà vicino alla vita e al tempo, dunque al futuro.

Remember Me non si conclude. L’ultima inquadratura e la prima sono immagini di transito, di movimento. Sono in effetti una sola inquadratura che non finisce, che sfuma nello spazio bianco delle congiunzioni.

Hélène Cixous ha scritto: "non si dipingono idee. Non si dipinge ‘un soggetto’. Non ci sono che misteri. Non ci sono che domande". (7)

(*) Testo della conferenza tenuta da Jacopo Benci presso l'Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Storia dell’Arte Contemporanea. Ciclo "Lezioni d’artista" a cura di Gabriella De Marco. Palermo, Palazzo Ziino, venerdì 27 settembre 2002

Roma 4 Novembre 2002


Note

[Note a Ventisette Frammenti su "Remember Me"]

(1) Robert Bresson, Notes sur le cinématographe [1975], Paris, Gallimard Folio, 1988, p. 50.

(2) "Telle photographie que je distingue et que j’aime [...] produit en moi [...] une agitation intérieure, une fête, un travail aussi, la pression de l’indicible que veut se dire". Roland Barthes, La chambre claire [1980], I, §7, p. 37.

(3) Michael Mazière, in Filmwaves, #9, autunno 1999.

(4) Plinio il Vecchio, Storia Naturale, XXV, xv.

(5) Stéphane Mallarmé, lettera a Aubanel, 16 luglio 1866 (cit. in Gaston Bachelard, La poetica dello spazio).

(6) Michael Mazière, in Filmwaves, #9, autunno 1999.

(7) Hélène Cixous, L’ultimo quadro o il ritratto di Dio (1983), trad. it. di Monica Fiorini, in cat. Œuvres d’être, Roma, Temple Gallery, 2000.


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