La Critica

Introduzione al Novecento

di PierLuigi Albini

 

Quasi all’improvviso, nei primi decenni del Novecento, l’arte ha aperto tutte le porte e le finestre della raffigurazione, il dentro e il fuori dell’uomo, il sotto e il sopra del mondo, il Bello e il Brutto e ha esplorato nuove capacità percettive del nostro cervello visivo, come protagonisti dell’esperienza estetica. Una conquista incalzante di tutti i possibili gradi di sperimentazione e, quindi, di libertà. All’origine di questa esplosione c’è la scienza, c’è la sua espansione progressiva e inarrestabile. E c’è ­ sia pure non esclusivamente ­ la prima avanguardia artistica nel senso pieno dell’espressione: il Futurismo.

Per cominciare a comprendere cosa è successo con il cambiamento della sensibilità estetica - che è un modo un po’ obliquo ma affascinante di capire il Novecento nel suo complesso - scegliamo due artisti distanti nel tempo, che possiamo considerare i simboli di due età, ma che futuristi certo non furono. Questo ci aiuterà a misurare quanto sia stata grande la mutazione intervenuta rispetto alla storia precedente e a collocare nella giusta prospettiva il movimento futurista. Beninteso, dovremo considerare il confronto come un’esemplificazione utile, seppure molto riduttiva, come uno strumento per avere un’idea forse troppo sintetica  di ciò che è successo.

Edvard Munch (1863-1944) è considerato, assieme a Vincent Van Gogh e a Paul Gauguin, all’origine dell’Espressionismo, una delle correnti artistiche fondamentali del Novecento. Quella che, assieme al Futurismo e al Cubismo, è riuscita a rappresentare in profondità il cambiamento dell’uomo moderno. Per lui l’arte non era un puro piacere estetico, ma la rappresentazione del destino dell’uomo. Nel 1889, scriveva nel suo  diario: “Non  si  possono  ritrarre eternamente donne che lavorano a maglia e uomini intenti alla lettura; voglio rappresentare esseri che respirano, provano sentimenti, amano e soffrono.”

La sua pittura non si rivolge più alla rappresentazione delle cose, come ancora avevano fatto gli Impressionisti, sia pure attraverso una rivoluzione della luce, del modo di vedere i colori e i soggetti. Compreso Cézanne, che impressionista lo si può considerare solo impropriamente. Munch si pone un altro problema, ossia di riuscire a dipingere l’uomo in rapporto alla realtà, di perforare la maschera dei comportamenti e degli atteggiamenti sociali per rappresentare i sentimenti più riposti, gli impulsi più reconditi, la pressione del nostro inconscio e la verità di una società falsa che deforma i sentimenti.  Uomini e donne soli davanti a se stessi e agli altri: la sua è una poetica dell’assenza e della perdita. L’equilibrio tra natura e umanità, la loro simmetria, così come erano stati inventati dal Rinascimento, sono ormai rotti sotto l’incalzare dello sviluppo industriale e di una rivoluzione scientifica che ridisegnano una posizione dell’uomo meno centrale nei confronti dell’universo e della Terra. La scoperta di nuove leggi fisiche e la teoria dell’evoluzione cominciano a rendere l’umanità estranea ad una tradizione tutto sommato confortante, riguardante la sua eccezionale collocazione nel mondo. In Munch c’è il primo di altri slittamenti compiuti dall’arte contemporanea, dall’attenzione alle cose al sentimento dell’artista, a come egli vede il mondo, non nella sua forma ma nella sua interiorità. La forma passa in secondo piano, anzi è piegata a ciò che è più importante, ossia all’espressione della coscienza, ai cosiddetti movimenti dell’anima e alla realtà che è oltre le apparenze.

 Il colore usato non è più quello veristico, ma deve trasmettere la visione dell’artista e, insieme, la verità della condizione sociale: lo squallore del perbenismo borghese, la durezza della vita di chi stenta a campare. La luce non illumina più, non fa brillare gli oggetti, non è uno studio di ottica, come negli Impressionisti e nei Divisionisti, ma è usata per tagliare la scena in modo drammatico, per colpire chi guarda attraverso la sua durezza. L’idea era di liberare il colore dai condizionamenti della forma, come con più insistenza tentarono di fare i fauves: un’operazione fisiologicamente impossibile perché la percezione del colore è inseparabile dalla costituzione di una qualche forma.

“Nella pittura di Munch ­ scrive Mario De Micheli ­ il sangue è sbiancato, s’è come gelato nelle vene”. In effetti, è la composizione stessa dei quadri e i colori usati che gelano il sangue nelle vene di chi guarda. Neurologo inconsapevole, ma molto in anticipo sugli approdi recenti della scienza della visione, Munch sollecita aree della nostra corteccia visiva che sono solitamente associate ad altri colori, producendo così un effetto di deragliamento mentale. Spesso le figure centrali di Munch sono in primissimo piano, creando un forte sfalsamento dell’inquadratura, in modo da portare lo spettatore dentro il quadro. Chi guarda deve lottare per non essere travolto, assorbito dal dramma, diventando a sua volta centro del dolore. Si tratta di un modo di risucchiare lo spettatore nella scena, che costituirà uno dei punti chiave della pittura futurista.


E. Munch, L’Urlo, 1899-1900

Per parlarne nel modo più sintetico, bisogna però partire da L’urlo. Da quelle linee rette sfuggenti in una prospettiva sbieca, rotte da una figura nemmeno terminata, su cui incombono spirali violente di colori lividi, tra l’acido il notturno e un aldilà minaccioso. Sono espressioni che parlano di morte, prima ancora che di disperazione, di una morte sempre agghiacciante, che emana da carni di verde solforoso quando, in altri dipinti, si incarna in un assassino.

Si sente che per Munch all’origine di tutto c’è il male di vivere impastato dal peccato, in una poltiglia creata dai sensi di colpa e dalla carnalità. Ma non si tratta di passioni travolgenti, solari, che riscattano una vita squallida, che spalancano un ritorno al ventre della terra, là dove essa, nel profondo delle nostre viscere e della nostra coscienza, unisce ­ deve disperatamente unire ­ gli istinti più ancestrali alla fusione fisica con la persona amata. No, qui si tratta di una passione tragica, fredda, impietrita. Non c’è compenetrazione con la natura, non c’è fusione con il mare o con il sole. È come il gorgo del fiordo alle spalle dell’uomo che urla, il cui blu cobalto non invita a profondità affascinanti e misteriose, ma annuncia orrendi abissi, circondati dai rosa gialli che intorbidano l’acqua e annunciano putrefazione e dolore.

L’Urlo svela una solitudine infinita e disperata che non ha inizio e fine, ma che è stata sempre tenuta nascosta, dissimulata sotto un’idea rassicurante del posto dell’uomo nell’universo. Annuncia una natura ostile, volto di pietra anch’essa. Descrive il dolore che sorregge, come un’impalcatura, il mondo. Scriveva Munch nel suo diario: “Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto, sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.”

Non è una natura estranea, quella rappresentata da Munch, è di più, è una natura che vuole cancellarti con la sua tagliente indifferenza. L’urlo, è stato scritto, attraversa tutto il Novecento.


E. Munch, La Danza della vita, 1900

L’urlo dell’angoscia incombe anche quando sembra che Munch voglia celebrare la vita, come nella Danza della vita, un soggetto che dovrebbe esaltare l’abbandono felice al ballo, anticipazione di una passione. Il verde cupo del prato è inesorabilmente tagliato da un cielo e da un mare lividi e stretti, in cui la spada dell’astro sullo sfondo non è la speranza di una nuova alba, ma l’annuncio della fine di un giorno, una metafora del ciclo della vita. Per questo le figure sul prato sono estraniate, anche quando sembrano abbandonarsi ai palpeggi del ballo o al vortice della danza.

La coppia centrale, affiancata dalle due misteriose donne, una in bianco e una in nero, rappresenta il significato finale della vita. Le altre figure sono variazioni, folla di comprimari il cui senso è solo quello di non avere un volto. Forse rappresentano il passato della coppia; forse indicano il tempo della loro storia, l’inizio e l’esplosione di una passione: una preparazione all’immobilità tragica delle due figure centrali, punto di arrivo di ogni storia d’amore. Movimento e immobilità, espressività dei corpi e indifferenza opaca del volto, sono i messaggi di un arco completo della vita.

La raffigurazione della coppia centrale non prelude, dunque, ad una notte di passione, alle confidenze degli amanti e alla fusione dei sensi e della carne: lui ha il volto terreo di una morte in arrivo, lei un viso di cartone. Quello che può sembrare l’inizio di un idillio non è che l’annuncio di qualcosa che deve concludersi. La coppia si tiene con tenerezza, la mano nella mano e il braccio di lei sulla spalla di lui: ma è solo l’emozione dolceamara di una fine, la commozione dei ricordi che danzano sullo sfondo. È la fine di una storia o la fine della vita? Il ciclo comunque si compie e a sottolinearlo sono ancora le due donne ai lati, in primo piano. Quella in bianco, sorridente e protettiva, con l’aria di primavera nelle vesti e sul volto, che incoraggia con un gesto della mano ad andare avanti, che rappresenta l’inizio. Ma, a destra, la donna in nero, severa e compunta, con quei riflessi gialli e rossi dei capelli e le mani verdi ­ verde della morte ­ chiuse in grembo, è in attesa. In attesa che tutto finisca, l’idillio e la vita. È la presenza della morte dentro la vita. Lei è là e i suoi capelli hanno gli stessi riflessi della lama dell’astro, sullo sfondo della scena. Come a chiudere il cerchio della vita com’è effettivamente.


Leonardo da Vinci, Uomo Vitruviano

 Nicolas Poussin (1594-1665), artista all’origine della grande pittura francese, maestro di molti di quelli che seguirono, rappresenta il punto di arrivo di una stagione iniziata con il Rinascimento italiano, e che è già nell’incipiente Illuminismo, alle soglie della nostra età contemporanea. Attivo a Venezia e soprattutto a Roma, dove partecipò ad un cenacolo esoterico, può essere considerato uno dei massimi artisti del XVII secolo.

Poussin era l’erede di un’epoca che aveva scoperto la prospettiva, la luce e la forma come rappresentazioni convenzionali della realtà. Un mondo che dovendo mostrare sentimenti elevati e perfezione di forma, si rivolgeva ai modelli classici. Era il mondo quale si presentava all’uomo o quale avrebbe dovuto presentarsi, secondo i canoni imperanti del Bello e della perfezione dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci: esisteva un mondo del quale l’uomo era la misura. In questo senso Poussin si discosta persino dall’inquietudine e dall’angoscia del tempo, proprie del Barocco, alla ricerca di una riscoperta classica di un mondo che sente sfuggirgli di mano. Anche Poussin ha dipinto un Ballo della vita.

Questa del cerchio della vita, del ciclo che si compie, è in realtà una vecchia storia universale. Per gli occidentali nasce in Grecia, dove la morte termina nel grigiore ovattato dei Campi Elisi, per gli eroi, e nell’oscuro Erebo per i comuni mortali. Per loro non c’è luce, ma solo dolorosa memoria e invidia dei vivi. La fine del tempo si congiunge a un nuovo inizio, come l’eterno ciclo delle stagioni e del trascorrere della volta celeste, come il ripetersi del passaggio dall’alba al tramonto. Questo motivo è ripreso, in forme neoclassiche, in tempi più vicini a Munch e a noi, dopo aver attraversato tutta la storia dell’arte. Come, appunto, nel quadro di Poussin del 1640 intitolato il Ballo della Vita o Danza della musica e del tempo. Si tratta di una scena altamente allegorica e complessa, molto studiata da Ernst Gombrich. Qui appare evidente come la soggettività romantica sia ancora di là da venire: i sentimenti sono come assorbiti, imprigionati, nella scenografia della tragedia umana. Le figure sono dei modelli ideali, la vita reale è altrove.

Nel quadro c’è la successione della storia dei popoli, simboleggiata dalle quattro figure che danzano in cerchio con diverse acconciature dei capelli (testa nuda, fascia o turbante, corona di lauro, diadema), che indicano la successione di povertà-inizi, di fatica-duro lavoro, di ricchezza-godimento dei frutti, di lusso-fine. Una sequenza che si darebbe il cambio nel ciclo storico di ogni popolo. È l’idea di inizio e decadenza delle nazioni come percorso naturale della storia, di cui scrisse Giovan Battista Vico, e che G.G. Winckelmann, nella sua Storia dell’arte, elevò poi a norma interpretativa dell’arte e del classicismo occidentali. La danza in circolo mima l'universo e rinvia al simbolo ermetico-alchemico di origine fenicia dell'Ourobouros, il serpente che si morde la coda, emblema dell'eternità della vita. La fine avrà un nuovo inizio e infatti le quattro figure danzano in tondo dandosi la mano. C'è qui l'idea greca del ciclo, dell'eterno ritorno, della storia che si ripete sempre. Nello stesso tempo, c'è l’allusione all’idea giudaico-cristiana del tempo lineare (della creazione e della “fine dei tempi”), accennata in parte dall’erma di Giano bifronte sulla sinistra. Giano rappresenta il rapporto tra passato e futuro, la transizione verso un altrove, il prima e il poi.


N. Poussin, Danza della musica e del tempo, 1640

Il dio allude a una natura solare, al controllo delle porte del cielo (alba e tramonto). Tuttavia Giano era anche il simbolo dell'apertura e della chiusura delle porte dei solstizi, della fine e dell’inizio delle stagioni. Egli simboleggia quindi l’idea del cambiamento che si ripete, ma anche della soglia di passaggio. Transizione e ripetizione sono dunque i due poli attorno ai quali, per Poussin, si svolge il destino degli esseri umani: non c’è ancora l’idea di rottura, di un avventurarsi in territori sconosciuti dello sviluppo della civiltà e della rappresentazione del mondo. Qui si afferma che non ci sarà mai nulla di nuovo sotto il sole.

Questa centralità del tempo, che presiede al girotondo umano, è sottolineata dal vecchio che siede all'estremità di destra suonando la cetra, mentre un putto sotto il Giano tiene in mano una clessidra. Anche i putti e il vecchio rinviano al ciclo della vita.

La situazione della scena terrestre è in qualche modo ripresa da quella celeste, poggiata sui nembi. Anzi, si specchia in essa. Anche questa è un’antichissima rappresentazione del mondo, in cui la Terra è il doppio di ciò che accade in cielo. È l’idea centrale che ha presieduto alla nascita della religione, fin dai tempi preistorici, alla ricerca di una via di uscita dal misterioso e angoscioso ciclo della vita e della morte. Ancora oggi, nella preghiera cristiana si dice “così in cielo come in terra”, a segnalare un accostamento le cui radici affondano nelle profondità mentali dell’arcaismo umano.

Anche nel Cielo di Poussin ­ poggiata sopra le nubi ­ c'è una specie di danza circolare ma con due rotture della chiusura del cerchio, come a indicare l'intervenire di un evento soprannaturale che rompe il ciclo obbligato dell’umanità: un cristo-apollo, dentro un cerchio splendente ma separato dalla scena, e un angelo-aurora. Quest’ultimo si stacca dalle nuvole e sembra garantire il collegamento tra cielo e terra. Nello stesso tempo, la rottura del circolo celeste esprime compiutamente il superamento dell’idea dell’eterno ritorno, e sovrappone l’idea giudaico-cristiana della fine del tempo a quella greca della sua ripetizione. Un’idea, quella cristiana, che vede nel passato la purezza del Paradiso terrestre, nel presente una condizione di sofferenza e nel futuro lontano il riscatto dell’immortalità. Qui forse c'è anche, nascosto, un simbolismo magico, terreno al quale Poussin non era estraneo. Tradizione classica, supernaturalismo cristiano e esoterismo magico di origine rinascimentale disegnano nel quadro il rapporto dell’uomo con la natura e con la sua stessa storia.

Nel XVII secolo nasce, dunque, una connessione stretta tra l'idea di progresso e quella di decadenza. Mentre in Munch, c’è l’impietrimento dell’esistenza, quasi una fotografia della tragicità della vita, in Poussin è la storia umana che si vede, la grande storia. In Munch c’è, invece, la storia individuale e la sua solitudine esistenziale.

Il ballo della vita è simboleggiato da Poussin in quello dell’umanità e dei suoi cicli storici. Tutti qui sottostanno a un destino comune e non c’è spazio per la soggettività in una rappresentazione cosmica, dentro la quale sono immerse le sorti individuali. Non c’è un urlo, ma la serenità o la rassegnazione di un destino accettato, di un ordine naturale delle cose, per quanto drammatico, il cui culmine è la salvezza portata dal Cielo. La disposizione frontale delle immagini e la geometria delle linee compositive, praticamente risolte nel cerchio e nella retta, senza concessioni ad una prospettiva obliqua, richiamano esplicitamente il desiderio di equilibrio voluto dal Rinascimento e il tentativo di un ritorno ai canoni classici.

In Munch la danza della vita si esprime invece nella traiettoria dell’individuo e della sua tormentata coscienza, nella scoperta del dolore come motore dell’universo: uomo e natura non si specchiano in nulla, il Cielo è vuoto o addirittura nemico. L’urlo che attraversa la scena è l’urlo dell’uomo, o della Natura che urla attraverso l’uomo È così anche per il terribile silenzio della sua Danza della vita, nonostante si capisca che dovrebbe esserci una musica a guidare il ballo. Qui un silenzio congelato equivale ad un urlo.

Tutti e due gli artisti sono, a loro modo, realisti. Poussin è realista nella raffigurazione formale, alla cui composizione è affidato il messaggio, laddove Munch è realista nella rappresentazione del “di dentro” dell’uomo: di qui le deformazioni delle figure e dei colori. Era lo stesso desiderio di Vincent Van Gogh di piegare la forma alla sostanza delle cose, quando scriveva che attraverso le deformazioni operate dal pennello debbono venir fuori “anche delle bugie, ma bugie che siano più vere della realtà letterale.”


V. Van Gogh, Notte stellata, 1889

In Poussin i colori rappresentano la realtà come dovrebbe essere, attraverso forme che si rifanno in parte a modelli da tempo sperimentati e, in parte maggiore, ad una nuova sensibilità che coglie nella rappresentazione delle masse pittoriche (piuttosto che nella linearità del disegno) e nello sforzo di rendere il movimento (piuttosto che nella rappresentazione statica delle superfici), il senso di un nuovo rapporto dell’uomo con il mondo. Sottolineo questo aspetto perché è necessario non dimenticare che anche Poussin era un innovatore. Invece, in Munch i colori esprimono direttamente il sentimento, tentando di travolgere la forma. Poussin sta sul punto culminante di una sensibilità artistica che cerca nel passato la sua legittimità e che appare ancora incerta sul presente. Munch fa parte della rottura dell’età contemporanea, quella che guarda l’uomo senza l’appesantimento della storia, per quello che è, solo di fronte al mondo e a se stesso e che, come un nuovo Ulisse, si mette alla ricerca di una patria perduta.

 Munch non crede più ad un ciclo che si ripete, ma nemmeno ad un tempo futuro che si concluda nel conforto della salvezza. Un destino proveniente da un altrove inesorabile schiaccia le persone. Semplificando molto, Poussin dialoga con l’uomo attraverso la raffigurazione del mondo, reale o simbolica. Munch e una parte importante della contemporaneità dialogano con il mondo attraverso la rappresentazione interiore dell’uomo: cercando disperatamente di capire quale potrà essere il suo nuovo posto in una natura che ha cambiato di senso.

Più in generale, assistiamo qui ad un vero e proprio mutamento antropologico, molto più profondo di un semplice cambiamento di stile e di epoca. In senso stretto e a livello di una precondizione necessaria, è oggi ovvio che le diverse sensazioni visive che ci sollecita il confronto tra Munch e Poussin nascono da un’inconsapevole ricerca degli artisti di stimolare costellazioni differenti di neuroni, la cui organizzazione e referenza interna ci procurano esperienze estetiche diverse. In senso lato, il passaggio alla rappresentazione pittorica dell’interiorità umana e della realtà oltre le apparenze, corrisponde all’ampiezza della rivoluzione nel rapporto tra umanità e mondo esterno. Non è più la cosiddetta “naturalità” storica (uomo, più mondo animale, più sfondo naturale, più narrazione), come in Poussin, a esprimere il senso della vita e il destino dell’uomo. L’umanità conquista una potenza inaudita di trasformazione del mondo, ma nello stesso tempo scopre nuove dimensioni della società e si affaccia sui baratri della vita interiore. Queste novità non sono più rappresentabili attraverso una tradizionale sollecitazione del nostro apparato visivo.

Senza con ciò ridurre ad un solo fattore gli effetti dello slittamento compiuto dall’arte nel XX secolo, è generalmente riconosciuto il ruolo che in questo cambiamento ha giocato la fotografia. Celebre è il testo del 1936 di Walter Benjamin L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, che affronta il rapporto tra produzione e fruizione dell'arte in base alle nuove tecniche di riproduzione e diffusione di massa, affermatesi nel precedente cinquantennio. Si pensi, appunto, al cinema, alla fotografia o ai dischi. Le arti non potevano più competere con i nuovi mezzi tecnici sul piano della riproduzione della realtà e persino della sua interpretazione, perché anch’essi si facevano arte, come peraltro dimostrano proprio le esperienze futuriste in questi campi. Del resto, sono numerose le testimonianze di pittori che confermano il ruolo della fotografia nello spingere la pittura oltre l’immagine formale, alla ricerca dell’interiorità e dell’astrazione. Nel 1839, quando fu presentato all’Accademia delle Scienze di Parigi il primo dagherrotipo, un pittore avrebbe addirittura esclamato: “Oggi la pittura è morta.” Costui doveva sapere bene che il rapporto tra l’ottica (nel caso specifico, tra la conoscenza e l’uso della camera oscura) e la pittura era cominciato secoli prima, forse con l’invenzione rinascimentale della prospettiva. Ma, certo, l’invenzione della fotografia moderna comportava uno shock estetico perché occupava esattamente lo stesso terreno visivo della pittura, con il suo meccanismo di ridurre la realtà entro un riquadro piano, sostituendo l’istantanea ottenuta per mezzo di un pennello con l’otturatore.

Ora, l’irruzione della scienza e della tecnologia nell’esperienza quotidiana, soprattutto sotto forma di macchine, sposta comunque l’attenzione verso la sfera tecnica, che comincia ad essere riconosciuta come “ambiente” umano al pari della naturalità storica, anzi, ne occupa progressivamente il posto. Ma, a questo punto, la natura non è più potenza personificata e proiezione della divinità, quanto forza astratta di leggi fisiche. La centralità dell’uomo nella creazione - anzi, di una creazione finalizzata all’uomo ­ vacilla.

L’uomo non appare più, in modo integrale, “la misura del mondo”; o, almeno, cominciano ad affiorare dei dubbi. Lo spostamento di attenzione dal mondo naturale a quello della potenza tecnica della nuova età industriale porta il confronto tra l’uomo e l’immagine che egli ha di sé su un piano completamente nuovo, non mediabile dai miti e dall’eredità culturale del passato, tutti costruiti sull’opposizione tra natura e umanità, secondo la tradizione classico-cristiana. L’uomo deve rileggere radicalmente se stesso perché i modelli di interpretazione della realtà non sono più quelli che ­ grazie alla rivoluzione culturale della Grecia antica - per millenni gli hanno dato il senso della sua appartenenza e della sua diversità nell’Universo. Siamo qui ancora nell’ambito dell’umanesimo tradizionale - cioè di una visione in cui è l’uomo il centro della realtà - ma il problema è ora diventato quello di trovare un nuovo centro, di adeguare i processi interiori e le sensazioni, cioè l’interpretazione del mondo. La tecnica non è più - come per millenni era stata - la semplice moltiplicazione delle abilità umane attraverso lo sfruttamento della forza animale e umana e le rozze macchine mosse dall’energia naturale. L’enorme potenza trasformatrice delle macchine costringe l’uomo a confrontarsi direttamente con se stesso, con un cambiamento profondo della propria psicologia e con il problema del controllo della tecnica. Non ci sono più totem, non più miti trasfiguranti, non più sacralizzazioni salvifiche. E tutto ciò, in primo luogo, nella sfera dell’arte, che è l’altro e parallelo modo storico dell’umanità di “leggere” il mondo.

Con il suo rapido procedere verso l’astrazione, l’arte del Novecento cerca di lasciarsi alle spalle l’eredità classica, anche quando tenterà di ricuperarne temi e suggestioni. Poussin possiamo ammirarlo, ma non lo sentiamo più “nostro”, anche se è transitato fino a noi attraverso Jean-Baptiste Corot e rappresenta una delle radici stilistiche dell’Impressionismo, giungendo fino a Cèzanne. Quest’ultimo, in quanto  radice principale di tutta l’arte contemporanea, richiederebbe un discorso a sé stante. Cézanne rappresenta l’innovazione audace, la conquista di un modo diverso di organizzare sulla tela ciò che si vede smantellando la prospettiva lineare, ma non rappresenta la rottura con la classicità, come compresero immediatamente le avanguardie artistiche.

Dal paragone tra Munch e Poussin emergono, con immediatezza visiva, le distanze siderali che dividono l’umanità antecedente la rivoluzione industriale da quella che, a rivoluzione industriale ormai trionfante, entra nell’era della tecnica e della società di massa. Quello di Poussin era ancora un mondo in cui era possibile immaginare un ordine e un’armonia, per quanto ideali (e quindi ugualmente artificiali), secondo la tradizione umanistica ereditata dalla Grecia classica, mediata dal cristianesimo e rinnovata dal Rinascimento. Quella di Munch è una società che trabocca da qualsiasi recinto ideale e in cui il soggetto non solo si aggira alla ricerca di una nuova collocazione ma reclama un’attenzione mai riscontrata in precedenza;  in cui la disperazione lo può portare a frequentare le scorciatoie più equivoche.

Certo, Munch non rappresenta tutta la contemporaneità, quella in cui si spezza il cerchio dell’eterno ritorno e si distrugge la freccia giudaico-cristiana del tempo, riportando sulla terra la rappresentazione celeste di Poussin. Tuttavia appartiene per intero all’epoca che rifiuta l’antico come modello (di bellezza, di etica, di equilibrio). L’arte dei tempi antichi e l’arte contemporanea si voltano qui le spalle, perché l’asse del presente-passato è sostituito da quello del presente-futuro. Gli antichi non sono più il metro di misura dell’umanità, i contemporanei trovano in se stessi e soprattutto nel proprio futuro le ragioni della storia e della civiltà.

La discussione era cominciata già sul finire del XVIII secolo, con la famosa questione se fossero superiori gli antichi o i moderni. La tarda modernità rifiutava di farsi giudicare da un passato considerato meno evoluto. Qui, in Munch, questa rottura appare in tutta la sua ampiezza, così come è radicale il superamento di tutte le regole pittoriche, di ogni canone rappresentativo della tradizione. Egli vuole raccontare l’interiorità dell’uomo confrontata con la sua storia personale e con il mondo che lo circonda. In lui non c’è tuttavia alcuna proiezione in avanti. Munch non ha più speranze in un passato da emulare, ma non le trasferisce in un altrove. Ha solo la disperazione di una condizione umana divenuta insopportabile.

Non è possibile esaminare qui le altre due radici delle avanguardie del Novecento, ossia Van Gogh e Gauguin, nei quali il confronto con una realtà dolorosa prende strade personali assai diverse. Di esito drammatico nel primo, per gli aspetti formali della rappresentazione, per l’uso del colore come violenta metafora di un’opposizione all’ingiustizia del mondo e, infine, per la conclusione disperata nel suicidio. Di tentativo di evasione in un mondo altro in Gauguin, in cui il colore, steso di piatto, esprime l’ingenuità e la freschezza di una vita non toccata dalle distorsioni e dalle artificiosità della civiltà europea.

C’è anche una corrente importante nell’arte del Novecento che, partendo da queste posizioni, non assume tuttavia la visione disperata dell’uomo né come un destino invincibile né come una fuga necessaria, e che dapprima tenta di creare una specie di paradiso laico in terra. Una parte di questa movimento riscopre infatti un naturalismo primitivo e innocente, che si dichiara estraneo alla macchina, nemica dell’uomo, e che punta a un ricupero della spiritualità. Ciò avviene nell’Espressionismo tedesco, partendo anche dalla lezione estetica di Munch, mentre una parte di questa tendenza tenterà invece di misurarsi con il cambiamento dell’uomo anche nella sfera sociale. C’è, ovviamente, anche il Cubismo, che tenta una lettura del mondo a partire dal grande sviluppo della meccanica e dal tentativo di impadronirsi del mondo osservandolo da diversi punti di vista, imprigionando il movimento nell’articolazione di piani simultanei.


N. Diulgheroff, L’uomo razionale,  1928

Ma nel primo Novecento c’è ancora un altro sviluppo artistico che cerca un nuovo asse temporale a cui guardare, ossia quello del presente-futuro, che fonda le ragioni della propria esistenza ­ è il caso del Futurismo e delle sue diramazioni dirette e indirette - sulla apparente cancellazione del passato e sull’accettazione piena della macchina. Un movimento che non si ripiega sull’indagine interiore, se non di sfuggita, né tenta di svelare cosa c’è oltre la maschera delle convenzioni sociali, ma tenta di  forzare direttamente nella potenza tecnica le pulsioni dell’uomo e di esaltarne la spiritualità in questa chiave. Forma e colore, come nel Cubismo, sono ormai qui asserviti alla rappresentazione di un’idea e non più alla riproduzione della realtà apparente. Qui la freccia del tempo ha un nuovo inizio che non nasce dai tempi dei tempi, ma dal “qui ed ora” di un mutamento scientifico, economico e sociale che ha tutto travolto e cambiato, e che ha un senso solo in rapporto al futuro.

L’uomo futurista, ipnotizzato dalle nuove tecnologie e dalla velocità, crea e fronteggia così il proprio futuro, che è il solo ad avere il diritto di esistere. Con orgoglio furioso e presunzione non invidiabili, se vogliamo. Con un ottimismo ingenuo, persino con un’imbarazzante superficialità, ma con una disperata volontà di rovesciare il rapporto vita-arte, e di tentare di rinascere, o di sopravvivere, attraverso la scorciatoia della volontà di potenza. Il mondo da rappresentare e da capire, per riconquistarlo e riassumerne il controllo, è quello della macchina ormai dotata di un’apparente vitalità propria: con la sua potenza, con la sua animazione fornita dall’elettricità, con la sua onnipresenza e la sua velocità. La rottura con il passato vuole essere totale e irreversibile. Non c’è più niente di bucolico nella realtà. La tradizione espressa da Poussin è diventata qualcosa di alieno nei cui confronti si può, si deve avere - per i futuristi - addirittura un sentimento di ripugnanza. Tutto il Novecento è segnato da questa nuova e inaudita presenza della tecnologia, vissuta come minaccia o come speranza, come drammatico sgretolamento del vecchio uomo o come prospettiva di liberazione, come desiderio (Eros) o come termine di ogni cosa (Thanatos). I futuristi scelsero l’Eros e una forma di umanesimo estremo che si riprometteva di vincere la morte.


I.Pannaggi, Bozzetto per Condannato alla Macchina 4K, anni ‘60

Quasi tutta l’arte del Novecento che è seguita non ha fatto altro che ripetere o rielaborare i tentativi degli artisti e delle avanguardie sommariamente citati.

Insomma, è proprio la radicale trasformazione dell’ambiente tecnico-economico, con la contemporanea apparizione delle masse sulla scena storica e con una rivoluzione irreversibile delle sensibilità e della percezione del mondo, a segnare l’enorme distanza che c’è tra un quadro di Poussin e i movimenti di quella che, per convenzione, chiamiamo l’Avanguardia del Novecento e, in particolare, il Futurismo. L’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci non era più possibile. Il cerchio in cui era inscritto e di cui definiva diametro e circonferenza, tendeva ora all’Universo illimitato. La figura umana diventava solo una piccola icona sperduta nella nuova immensità: un Universo ­ quello che vediamo ­ dislocato in un punto casuale del Tempo.

È da qui che nasce la contemporaneità, nonché la sua crisi. E quella dell’umanesimo tradizionale, con le sue convulsioni e i tentativi estremi di mantenere in qualche modo una misura umana e un senso del mondo. Magari sotto forma di uomo-macchina. Come, appunto, tentarono di fare i futuristi.

Roma, 27 dicembre 2003


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